Spirito Santo rendici liberi dal male e dalla epidemia

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-23)

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Spesso ci vien voglia di sintesi di tutte le esperienze belle che facciamo; in genere si fa una festa: è la festa del battesimo per una nascita, è la festa del matrimonio per una decisione di amore pubblica, proprio perché l’amore fra due persone che si decidono di volersi bene, e nel volersi bene danno vita, non può essere “fatti loro”, ma evento di tutti coloro con cui i due sposini hanno legami; ancora lo è la festa della laurea perché si è finito un percorso nuovo, che ha ampliato conoscenze e professionalità: faccio festa perché mi è costata molto – il punteggio del voto non è la cosa più importante – e ci sono riuscito.  

Oggi – fatto cosmico – siamo al compimento del grande progetto di Dio con l’umanità: la conclusione della nuova alleanza tra il Signore Onnipotente e l’umanità.

Abbiamo ancor in mente il Vangelo al capitolo 20 di Giovanni, in cui si narra di quella bella corsa al sepolcro di un vecchio e di un giovane, Pietro e Giovanni, a constatare che il sepolcro era vuoto, e i tre verbi che hanno dato una notizia importante ai due e a tutto il genere umano: entrarono, videro e credettero

Ma di grande gioia ancora non si parla: è bello allora, per completare la grande storia di Gesù, figlio di Dio, e dare gioia a tutti, l’arrivo di Gesù alla sera di Pasqua: ci sono tutti, meno Tommaso, ma il capitolo 20 di Giovanni non finirà senza descrivere anche quell’altra bella sera di otto giorni dopo, che concluderà con la bellissima espressione di Fede “Mio Signore e mio Dio”, che noi adulti ricordiamo da bambini abbiamo imparato dai nostri genitori da dire sotto voce ad ogni Messa quando il prete innalzava l’ostia prima e il calice dopo.  

Ebbene … quella sera Gesù compie il suo sogno, che è il sogno di Dio Trinità sulla vita dell’umanità: è lo stesso Gesù che era stato appeso alla croce, difatti mostra ai discepoli le mani trafitte e il costato squarciato.

E’ sempre lui visto da occhi umani e ora percepito nella fede, e oltre che mostrare la propria identità col crocifisso compie tre gesti che lo rivelano ancora una volta definitivamente come il Messia, gesti che danno forma alla Chiesa.

Augura la pace: è una pace che l’uomo non si può dare e che viene da una libera decisione di Dio; è un bene degli ultimi tempi, in cui Gesù è già entrato; viene irradiata da Cristo risorto adesso all’esperienza di fede degli apostoli, che si sentono inondati di gioia, finalmente.

Secondo, alita su di loro dicendoricevete lo Spirito Santo“: Gesù è già risorto, è già presso il Padre e quindi lo Spirito trasmesso viene anche dal Padre. E come Dio spirò nel primo uomo l’alito della vita e divenne persona vivente, così il nuovo Adamo – ormai alla destra del Padre – Gesù, alita il suo Spirito sul gruppo dei discepoli e fa di loro una comunità vivente, il primo nucleo della nuova umanità.  

E infine, Trasmette il potere di rimettere i peccati ai suoi discepoli, che già lui esercitava nella sua esperienza di vita umana, facendoli partecipi della sua divina regalità, che ora risplende come era da sempre, arricchita però della sua umanità. 

Si capisce allora molto bene quella frase “mozzafiato” – dice il Vescovo Lambiasi – di san Gregorio di Nissa: “Se a Dio togliamo lo Spirito Santo quello che resta non è più Dio, ma il suo cadavere”, e allora verrebbe da dire a maggior ragione “Se alla Chiesa togliamo lo Spirito Santo, quello che resta non è più il santo popolo del Dio vivente, ma una lunga fila di camion carichi di bare, che vanno a riempire un cimitero di cadaveri“. 

E proprio anche per questo chiediamo allo Spirito Santo che risani la nostra umanità dalla pandemia, perché siamo e ridiventiamo un popolo di Dio vivente e gioioso, e smettiamo di essere segnati da queste morti che ci tolgono anche l’immagine di un popolo vivo e ci privano della gioia della Pasqua e della Pentecoste. 

31 Maggio 2020
+Domenico

Conclude il tempo pasquale e si apre alla forza dello Spirito Santo

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 21, 20-25)

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Oggi è una giornata di conclusioni, di rilancio, di speranza: la messa di stamani ci riporta nel Cenacolo a vivere l’ultima attesa.

La storia della chiesa primitiva si conclude: Paolo è arrivato finalmente  a Roma, è agli arresti domiciliari, ma nessuno lo ferma nella sua decisione di far conoscere Gesù; a Roma ci sono tanti ebrei che lo possono consultare, ma soprattutto tanti pagani cui lui vuole annunciare la figura di Gesù, risorto e salvezza di ogni uomo, e proprio a Roma si può dire che si aprono le porte dell’occidente alla luce del Vangelo.  

Il Vangelo di Giovanni – pure – si chiude: Pietro e Giovanni si accommiatano; gli apostoli si sentivano prima di tutto testimoni di Gesù, della sua vita, della sua dottrina e specialmente della sua risurrezione: hanno una missione nel mondo e nella storia di garanti della verità trasmessa come testimoni, chiamati ad esserli da Dio.

Ci viene quindi richiamata la  missione di ogni cristiano: ognuno di noi deve essere segno visibile, mediante la sua vita, della parola in cui crede.

Gli Evangeli che abbiamo letto e su cui abbiamo riflettuto, e in quest’ultimo tempo soprattutto il Vangelo di Giovanni, ci danno l’immagine del testimone che dobbiamo realizzare nella nostra vita in maniera originale: non siamo mai fatti con lo stampino.

La Parola di Dio scava nelle nostre vite cose diverse, meravigliose, importanti e da comunicare: è il tempo dell’andate, dell’uscite, dell’Ascensione di Gesù, delle sfide che ogni giornata sicuramente non ci farà mancare.  

In questo tempo pasquale siamo stati serrati nella nostra pandemia: sembra che ci lasci … ora si potrà sperare che ci abbandoni del tutto?

Ci aspetta un periodo difficile di ricupero forze, energie, impegno, solidarietà, ma l’attenzione più alta deve essere a non tornare ai vecchi tradimenti della fede e della noia di essere cristiani. 

Questa sera, questa notte, molti faranno la veglia: è una veglia come quella che ha anticipato la pasqua; ricordo che gli scout si trovano tra di loro, accendono fuochi, fanno proprio la veglia in preghiera e rinnovano la loro grinta formativa e di servizio. 

E noi allora, in questa notte che precede la pentecoste, che precede la venuta dello Spirito Santo, che vogliamo ricelebrare con molta intensità, ora che possiamo anche partecipare alla celebrazione eucaristica, pur se con tante condizioni, dobbiamo aprire il cuore alla venuta dello Spirito.

Vieni Spirito Santo!

30 Maggio 2020
+Domenico

Pietro, l’ultima chiamata da conclave

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 21, 15-19)

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C’è bisogno ogni tanto di rifondare le cose più importanti che viviamo: assumiamo un incarico nella amministrazione comunale, sarà bene conoscere meglio la Costituzione Italiana; facciamo parte di qualche associazione di volontariato? sarà utile conoscere bene le disposizioni legislative del terzo settore; sarà importante conoscere  oppure facciamo parte della chiesa e vogliamo accostarla con più rispetto e conoscenza o ancor meglio prenderci alcune responsabilità cui siamo stati chiamati, e sarà importante conoscere in senso biblico, cioè fare esperienza concreta della Chiesa. 

Ecco, il tempo di Pasqua è stato un tempo molto utile per ricostruire tutti gli elementi fondamentali della vita della Chiesa, e ci sono stati presentati nelle letture della Messa, che avevano sempre gli Atti degli Apostoli, cioè questa entusiasmante vita dei primissimi cristiani a partire anche da quando ancora non erano chiamati così.

E’ in questa ultima settimana che insiste sulla Pentecoste: abbiamo riflettuto sulla bellissima preghiera di Gesù, prima della sua morte e risurrezione, e oggi contempliamo l’ultima chiamata di Pietro, quella del Conclave, cioè il giorno in cui Gesù lo fa responsabile della Chiesa, lo fa il primo papa.  

Vi ricordate … o leggete il Vangelo … c’è quel famoso dialogo con tre domande imbarazzanti che fa Gesù a Pietro: “Mi ami? Mi ami davvero? Mi ami più di costoro?

Ad ogni risposta Gesù gli aumenta la responsabilità sulla Chiesa, fino a farlo papa.

Per dirigere gli altri occorre prima di tutto dare la prova di un amore più grande … però è troppo facile dire “ti amo”: può essere una dichiarazione leggera, pure una dichiarazione sincera, ma che nasce dall’entusiasmo e dalla presunzione di sé.

Pietro, al quale Gesù riserva un ruolo che richiede soprattutto un grande amore e una grande fedeltà, si era imbarcato troppo facilmente nel suo ruolo futuro, giurando una fedeltà e un amore che, alla prova dei fatti poi, si è dimostrata fragile e incerta.  

Gesù, con le sue domande, non vuole cacciare in gola a Pietro altri fatti incresciosi: non ha mai chiamato nessuno a rendiconti del proprio operato, ha sempre caricato tutto di perdono, di fiducia, di nuove proposte più impegnative.

Pietro però deve sapere che la sua vocazione al primato pastorale non dipende e non è legata al suo merito, ma alla scelta di lui che il Signore fa, per questo dovrà amare di più. 

E’ un episodio questo che avrà sostenuto non un papa solo al momento della richiesta di accettazione dei voti dei confratelli cardinali in Conclave.  

Anche il suo rinnegamento è una lezione: non ha disimparato l’amore di Cristo, ha imparato il timore di sé; non ha trascurato la carità, ma ha trovato l’umiltà e la fiducia nella forza di Gesù. 

Nella Chiesa tutti noi battezzati abbiamo un posto perché siamo stati scelti da Gesù e quindi senza timore di non essere all’altezza del compito, ma disponibili a farsi correggere. 

29 Maggio 2020
+Domenico

Il principale segno di Dio nel mondo è l’unità

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 17, 20-26)

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Quante volte, quando veniamo a contatto con persone che stimiamo per il loro rapporto con Dio, le loro preghiere, la loro testimonianza di fede incrollabile chiediamo loro di pregare per noi?

Papa Francesco non termina un angelus senza chiedere di non dimenticarsi  di pregare per lui, ed è una gioia scoprire che Gesù, in questa accorata preghiera, prima di affrontare la suprema prova della sua vita sul Calvario, Lui stesso, Gesù, ha pregato per ciascuno noi.  

Noi che non abbiamo condiviso con Lui nessun momento di vita, noi che non abbiamo potuto vederlo con i nostri occhi, sentirlo con le nostre orecchie, noi gente di questo nostro tempo turbolento, che sembra allontanarsi sempre più da Dio, noi siamo stati nelle sue preghiere, nel suo cuore, nel suo pensiero, nel suo dialogo con il Padre e continuiamo ad esserci perché lo Spirito Santo viene dentro di noi per rendercelo sempre vivo e presente: lo ascoltiamo ancora oggi nelle parole della sua Chiesa.  

Che cosa chiede Gesù al Padre per noi? Che tutti siano uno, «come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi».

Gesù, mentre prega, getta uno sguardo a quanti crederanno in lui e per i suoi apostoli e per tutti noi invoca l’unità, che ha due dimensioni: una invisibile, che è la comunione stessa con la Trinità, e l’altra visibile, capace di convincere il mondo che Gesù è davvero inviato da Dio Padre.

Nel suo commiato da noi si identifica con l’amore reciproco spinto fino al dono della propria vita: Giovanni parla della Chiesa solo in questi termini, e lancia più di uno spiraglio, una luce vera, che si farà fiaccola, che in nostra compagnia ci aiuta a camminare nelle nebbie della vita, e fa da riverbero di misericordia sul mondo che non crede in Gesù.

Abbiamo la gioia e il compito come cristiani di fare da capofila di una umanità già tutta redenta, anche quella che non è consapevole di questo grande dono di Dio: non ci possiamo permettere di lasciare fuori nessuno da questa unità, anche i nemici nostri e i nemici di Dio. 

Forse oggi siamo divisi, perché abbiamo pensato che fare unità si potesse fare attorno a un tavolo di concertazione, con i nostri metodi tipici del “passo indietro tu, un passo indietro io, andiamo d’accordo, vediamo com’è, se a me serve …”

La gloria di Dio non si manifesta moltiplicando i discorsi su Dio o difendendo i diritti di Dio: infatti si è manifestata nella morte di Dio, nell’estremo annichilamento nel quale anche la Parola – con la P maiuscola – ha taciuto.

La teologia della gloria è la stessa teologia della croce: non possiamo allora accedere a questa gloria se non ci si apre all’amore con cui il Padre ha amato il Figlio, già prima della creazione del mondo, e che ha trovato il suo punto finale nella morte per la salvezza di tutti gli uomini.  

Certo noi intelligentoni potremo fare tutti i nostri ragionamenti più contorti e difficili, profondi e logici, ma il Dio che ci inventeremmo sarà sempre un Dio senza gloria, ed è senza gloria perché è senza croce. 

La Chiesa per cui Gesù, prima di andare a morire in croce prega, è sempre illuminata dal quell’ «io ho fatto conoscere loro il tuo nome»: non è una dotta teologia che ce lo fa conoscere nel senso biblico di esperienza coinvolgente ogni nostra persona, ma il silenzio di Dio, quello del Figlio dell’uomo appeso sulla croce.

E il dono finale della preghiera di Gesù è: “che l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”, e dobbiamo dircelo sempre, anche in questi tempi di “distanza fisica”. 

28 Maggio 2020
+Domenico

Il termine “mondo” nella preghiera di Gesù

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 17,11b-19)

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Ancora all’inizio della preghiera di Gesù che precede – come dicevamo – la notte dell’agonia nel Getsemani, la sua crocifissione, morte e risurrezione, Gesù stesso fa questa affermazione: «Non prego per il mondo».

E’ una frase che sorprende: sappiamo che la parola mondo assume molti significati, sempre nel campo di forze ostili, e la frase sembra poco in sintonia con altre affermazioni del Vangelo, però questa affermazione non possiamo tacerla e nemmeno sminuirla.

Nel contesto dell’intera preghiera il rapporto col mondo è descritto secondo varie prospettive: il vocabolo “mondo” vi ricorre almeno dodici volte, ciò vuol dire che è importante.  

Gesù  non riesce a esprimere il suo rapporto col Padre, e nemmeno il suo rapporto coi discepoli, senza servirsi della figura del mondo: Gesù non appartiene al mondo, ma al Padre che lo ha mandato nel mondo.

I discepoli non appartengono al mondo, ma Gesù li lascia nel mondo: i discepoli sono diversi dal mondo, ma devono stare il mondo, perché il mondo sappia che Gesù è stato inviato dal Padre per la sua salvezza

Allora … tra il mondo e Gesù, il mondo e i discepoli, c’è diversità di appartenenza: una diversità che il mondo rifiuta, la avverte come una minaccia; tuttavia ogni discepolo deve stare davanti al mondo per testimoniare la grande verità che Dio ama il mondo.

Il mondo rifiuta la verità che lo salva, e rifiuta i cristiani che la annunciano: è un umanità che rifiuta consapevolmente l’obbedienza alla Parola restando chiusa nell’amore di sé, ma ogni cristiano deve stare nel mondo a testimoniare che il mondo sta sempre nel cuore di Dio.  

Se c’è una diversità, non sta nella condanna del mondo, ma nell’amore al mondo: Il mondo non ama se stesso, è pieno di relazioni egoistiche e distruttive.

Il cristiano invece lo ama: questa è la differenza cristiana.

Questo mondo non è nemmeno quello che gli anacoreti, o i contemplativi, gli eremiti abbandonano per dedicarsi alla contemplazione in una salutare segregazione: Gesù stesso ha abbandonato il suo stato di “segregazione divina” per entrare compiutamente nella condizione umana, proprio per scrivere dentro lo spessore della nostra storia, dentro questa nostra umanità, la sua nuova esperienza di umanità: Lui stesso che è fondamento oggettivo di passaggio dalla schiavitù alla libertà.  

I cristiani non sono portatori di una alternativa mondana, ma annunciatori della Parola che salva, della parola che cambia, che accende speranze, che è presenza della Parola per eccellenza: il Verbo fatto carne.

E qui torniamo con una completezza di visione al primo capitolo del Vangelo di Giovanni: «il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi».  

Ci fa bene, anche dentro questa epidemia che sta forse evolvendo verso la sua fine, che noi abbiamo questa consapevolezza: che questo mondo va amato come lo ha amato Dio.

27 Maggio 2020
+Domenico

La preghiera di Gesù

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 17, 1-11a)

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Non faremo mai attenzione sufficiente a un rapporto con il Signore di ogni persona umana veicolato dalla preghiera.

Checchè se ne dica, pregare è un atto squisitamente umano: non si tratta sempre di un rapporto con Dio, perché la preghiera matura nella nostra condizione umana quando si snoda nel suo percorso di crescita, di attesa, di costruzione di sé.

Ogni persona si caratterizza necessariamente in una relazione con altri, con qualcuno, con le persone amate, o le persone incontrate: con esse sviluppa desideri che si comunicano e diventano semplici o persistenti invocazioni di amicizia, di relazioni più profonda, di richiesta di compagnia, di aiuto, di ascolto oppure di accettazione di qualcosa di te. 

Non è forse così anche l’incontro tra due innamorati, tra cui a mano a mano che si conoscono e manifestano fiducia vicendevole, nasce un desiderio, una richiesta spesso solo intuita, ma in seguito anche significata e espressa? 

E’ la più semplice forma di preghiera: non è manifestazione di dipendenza, ma dialogo costruttivo, approfondimento di comunione.  

Le celebrazioni eucaristiche di questa settimana – che è imminente alla Pentecoste – ci presentano la bellissima preghiera di Gesù al Padre, che occupa tutto il capitolo 17 del Vangelo secondo Giovanni.

In questa preghiera solo Gesù parla e si rivolge al Padre; il nome “Padre” è l’invocazione, l’unica invocazione continuamente ripetuta: Gesù lo invoca almeno sette volte, cinque senza nessun aggettivo, una volta dice Padre “Santo” e un’altra “Padre Giusto”. 

E’ una pagina scritta in simmetria con il prologo, che è la prima pagina del Vangelo di Giovanni, dove si diceva, se ricordate “in Principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio“, dove si annunciava ciò che nella Trinità si viveva e si era deciso circa la missione di Gesù nel mondo.  

Qui invece, appena prima della narrazione della passione, morte e risurrezione, Gesù afferma, in forma di preghiera e con il pathos della condizione umana, che tutto quello che era stato incaricato di fare, cioè la missione di Gesù, si è compiuta: non si fa più la fotografia della condizione di ombre e tenebre in cui dall’alto, dalla parte di Dio, si vedeva come era mal combinato il mondo, ma dal basso si contempla, dentro questa terra che doveva essere redenta, e si contempla l’orizzonte della gloria di Dio. 

Qui le tenebre sono giunte al massimo della loro oscurità: c’è l’umanità del figlio dell’uomo con i segni del supplizio della croce e con quelli della gloria del Padre.

Non c’è altra pagina di Vangelo così densa in cui le due condizioni di Gesù, quella umana e quella divina, confluiscono nei due termini contraddittori della sua esistenza: morte e gloria. 

Queste coincidono perfettamente negli stessi movimenti del cuore e ci aiutano a superare le contraddizioni attorno al centro del mistero profondo, grande, entusiasmante di Cristo, cui si può giungere solo con la fede e non con una sintesi razionale. 

Per questo Gesù dice “ è giunta l’ora”, l’ora attesa e invocata da Maria a Cana, l’ora della morte obbediente. 

Ciò che andava compiuto, ora è compiuto, è l’ora dell’annientamento di Gesù, ma nello stesso tempo è la più intensa e vera manifestazione del Padre.

La gloria non è vista come il premio della croce, ma la stessa croce: qui è Dio il soggetto stesso di tutto, anche della morte, perché questa è il massimo dell’amore e il Dio fatto carne entra nella totale assenza, nella morte, e vi entra proprio nel massimo del suo amore. 

26 Maggio 2020
+Domenico

Cristo sei come uno di noi, ma sei proprio il nostro Dio?

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 16, 29-33)

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Ci facciamo spesso domande sulla fede, sull’eternità, sull’aldilà, sul mondo soprannaturale e le risposte non ci danno mai evidenza e soprattutto certezza.

Tra certezza e verità – però – c’è una bella differenza: la fede, l’aldilà, il soprannaturale stanno dalla parte della verità.  

La fede non è certezza umana baldanzosa, sicura, schiacciante, non elimina mai completamente il dubbio, l’oscurità, è continuamente messa in discussione dalla tentazione e dalla prova, e questo – val la pena di ricordarlo sempre – significa che la persona è sempre libera di credere, non ne è costretta come se si trattasse di un teorema matematico dimostrabilissimo dalla ragione. 

Con Gesù i discepoli avevano fatto molta fatica a stargli dietro col pensiero, a capire che cosa volesse dire quando parlava del Padre, del regno dei cieli e – finalmente dopo averci messo il naso, si direbbe con san Tommaso – si sono rassicurati.  

Adesso finalmente parli chiaramente: della serie non è che siamo meglio noi che ci siamo sforzati di entrare nel tuo modo di pensare – no – sei Tu che parli chiaramente. Almeno sul monte alcuni di noi Ti hanno visto trasfigurato, Ti sei mostrato veramente per quello che sei, anche se sei venuto più vicino alle nostre aspettative” … e pensano ormai che ogni problema sia superato.  

Tutto è chiaro ai loro occhi. Nel loro entusiasmo c’è qualcosa di infantile e di umano: l’orgoglio di essere alla scuola di un uomo straordinario che sa tutto e soprattutto sa farsi capire.

E Gesù, come se facesse loro una doccia fredda, dice: “Adesso capite? Arriverà il tempo della prova, della disillusione, della fatica di entrare fino in fondo nel mio mistero.

Si erano tutti adagiati sulla focosità e certezza di Pietro dopo la Trasfigurazione; che disse Pietro allora? ” Signore vogliamo stare qui sempre,  ci facciamo tre capanne e stiamo a contemplarti soltanto”.

E’ facile avere fede nel Cristo splendente e glorioso sul Tabor, ma difficilissimo accettare, senza scandalizzarsi, il Cristo dell’angoscia dell’orto degli ulivi, del disprezzo e del gioco sadico dei soldati, le urla della morte sul Calvario, l’annullamento dentro nella tomba, ma anche il Cristo che si nasconde in questo tempo di pandemia, nelle sofferenze indicibili dei morenti.

Lo Spirito Santo solo ci può aiutare a colmare la nostra incapacità di capire e di affidarci … e ci affidiamo a Lui.

25 Maggio 2020
+Domenico

Il comando dell’Ascensione: andate

Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)

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Mi piace pensare alla vita come a un grande pendolo che oscilla e che sposta i nostri sentimenti, le nostre tensioni ora su una prospettiva ora nussun’altra.

È il caso del nostro vivere sociale: s’è spostato per tanti anni su idee di universalismo, ora sembra che invece conti di più il particolare, quello che è nostro, che possiamo godere, che ci dà sicurezza, che ci dà identità, insomma un contorno che ci permette di riconoscerci tra noi, di godere delle nostre tradizioni, di non sentirci espropriati delle nostre radici; insomma, dall’universalismo, dal sentirci cittadini del mondo ad essere soprattutto e solo italiani. 

Forse si stava fissando troppo su questa ricerca di sicurezza anche il pendolo della vita degli Apostoli: dopo lo sconquasso crudele degli avvenimenti della passione e morte di Gesù, dopo la insperata e ritrovata felicità di vederselo vivo risorto, a ritemprare forze e stimolare volontà, si erano un po assopiti fra di loro.

Era stata di nuovo ricomposta la piccola comunità: certo, tutto non era più come prima, ma la tentazione di riportare il messaggio di Gesù al livello del “tamponamento consolatorio” della vita di ciascuno era forte.

La tentazione di farsi dei muri protettivi contro le persecuzioni, ma soprattutto contro nuovi ingressi nella comunità cristiana di tanti pagani che ponevano sicuramente dei problemi ai giudei che si erano fatti o diventavano cristiani. 

Si farà addirittura un concilio per vedere se i pagani dovevano prima diventare ebrei con la circoncisione e solo dopo ricevere il battesimo per essere cristiani, e lo Spirito Santo li aiutò a decidere per il battesimo soltanto.  

E Gesù interviene e dà un’altra oscillazione al pendolo, una oscillazione definitiva: “Andate in tutto il mondo, è là che mi troverete d’ora in avanti, non qui. Il mio messaggio, la mia vita, la mia forza è nelle vostre mani e va spesa nelle strade del mondo. Il mio compito su voi, di tenervi uniti, assieme, è finito. Io sono con voi per sempre, tutti i giorni fino alla fine del mondo e in tutti i posti del mondo.” 

Non li abbandonava, ma dava loro appuntamento fuori del guscio delle piccole appartenenze, dei piccoli equilibri di coscienza, delle fragili identità da bonsai. 

La piazza del Vangelo è il mondo invece, le strade dell’uomo sono le direzioni, tutta la sete di amore, di pace, di verità è invito per tutti a cercare nuovi orizzonti e i cristiani li debbono loro mettere a disposizione con la fede in Gesù. 

Tutte le sofferenze sono indicazioni di rotta. La fede non è un bene da seppellire nella vita come una moneta preziosa. 

Fra un poco dovrai tornare a scavare, ma non la troverai più, non sarà più fede, ma ideologia, potere, comodità, egoismo, archeologia, museo, muffa.

La fede si fortifica e cresce solo se la doni

Gli apostoli sono partiti tutti, noi invece ci siamo spesso seduti, la pandemia ci serve ancora di più da scusa.

Sappiamo però che la fede non è fatta solo di prediche e di Messe, ma oggi soprattutto deve far sperimentare la presenza di Dio soccorrendo, con ciò che è possibile fare, il nostro prossimo, i malati, la solitudine degli anziani, allargando a tutti la nostra limitata esperienza di chiesa e di parrocchia con la preghiera e la vicinanza morale, un colpo di telefono, una fotografia che aiuti a non spegnere mai la speranza. 

Siamo chiamati a uscire anche noi, pur restando in casa, come ci si dice nel rispetto delle raccomandazioni contro il Covid.

24 Maggio 2020
+Domenico

Pregare è aprirsi a Dio con i sentimenti di suo Figlio

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv16, 23b-28)

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Facendo pulizia tra le cose accumulate in dieci traslochi – che non auguro a nessuno – ho trovato quattro foglietti polverosi intitolati “cento chiavi per la preghiera”: è una serie di definizioni della preghiera che risalgono a un scritto del 1977 in cui la prima chiave è “Pregare è ascoltare Dio che parla” e la centesima è “Pregare è credere che nel profondo della notte c’è la luce“.

Si passa dal destinatario che, per chi crede, è Dio, alla situazione umana di ciascuno in cui si sperimenta la notte, la solitudine, il buio della vita.  

Nel brano di Vangelo che la Chiesa ci propone oggi si tratta della preghiera, e in modo particolare della preghiera nel nome di Gesù: “Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà… perché la vostra gioia sia piena”.

Nella mentalità semitica il nome ha una forza  particolare, contiene la potenza della persona che rappresenta: la preghiera fatta nel nome di Gesù – quindi – è una preghiera che nasce da una profonda intimità con Lui, che ci porta a interpretare e a appropriarci dei suoi sentimenti, dei suoi desideri, delle aspirazioni sue; in altre parole è come far pregare Cristo dentro di noi.

Immaginate allora quanto può essere vera efficace la preghiera nel nome di Gesù: i sentimenti di Gesù li conosciamo bene, sono quelli espressi nella preghiera che proprio Lui ci ha insegnato, il Padre nostro.

Lì ci stanno le autentiche istanze della preghiera cristiana: la manifestazione della gloria del Signore, il Padre, la venuta del suo regno, l’attuazione della Sua volontà, il perdono dei peccati, la sua compagnia che ci preserva durante la tentazione; ci stanno le richieste anche del pane quotidiano, perché la salvezza si attua in questo mondo e nella sua storia in cui dobbiamo avere il necessario per vivere.

Quindi possiamo chiedere nel nome di Gesù anche doni pratici, temporali, mettere davanti a Dio le preoccupazioni del vivere di ogni giorno: Gesù si è incarnato nella vita umana, l’abbiamo contemplato nella festa del lavoro, come figlio del carpentiere e carpentiere lui stesso.

Ci sta l’apprezzamento della salute – allora – della vita, della dignità del lavoro, della mansuetudine … le beatitudini tutte insomma, che sono i profondi sentimenti di Gesù. Ci sta il cambiamento radicale di vita personale e sociale che abbiamo intuito durante l’epidemia, su cui preghiamo sempre che si dica la parola fine. 

Se alla base c’è il desiderio, la richiesta che si faccia la sua volontà, vuol dire che non daremo la stura ai nostri fini meschini ed egoistici.

Si scrive allora dentro di noi un discernimento generoso, una scelta che coinvolge il prossimo, una domanda che sta nel cuore di Gesù, in tutta la sua vita, in tutto il suo Vangelo.

Questo discernimento non siamo capaci di farlo da soli, perché siamo fondamentalmente autocentrati, e allora supplisce lo Spirito Santo, coi suoi doni che cesellano in noi la figura, il pensiero, i sentimenti, la personalità di Gesù.

Così la nostra preghiera non sarà mai una lagna, una rivendicazione, una pretesa e sicuramente sarà esaudita da Dio Padre. 

23 Maggio 2020
+Domenico

Il dolore di un parto è segno del mistero della vita

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 16, 20-23a)

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Credo che sia un tormentone sempre per tutti quello del “perché della sofferenza” come elemento determinante e invincibile della vita umana. 

Quante volte ci siamo domandati: “ma perché devo sopportare questo dolore senza colpa mia?” Perché i bambini devono soffrire senza nessuna … non solo colpa, ma anche consapevolezza di essa? 

Per questo forse nella bibbia la gioia è sempre il grande segnale di un mondo nuovo, del mondo futuro: essa tuttavia nascerà dalle tribolazioni di un parto doloroso.

Come dalle doglie di un parto nasce una nuova vita per la donna, così dalle sofferenze e dall’oscurità del Venerdì Santo scaturirà la gioia e la luce della Pasqua.  

Bellissima questa immagine di Gesù ,che al problema più difficile del dolore, e alla presenza insopportabile e incomprensibile in ogni vita della sofferenza, pone come chiave di soluzione la vita peculiare della donna, la sua maternità che la qualifica e la fa grande in dignità e compito per l’umanità.  

La sofferenza allora è quasi una legge della vita, anzi della nascita alla vita.

Da qui tutti i nostri interrogativi: come può la sofferenza, che apparentemente è soltanto forza negativa e annientatrice, essere all’origine del parto del nuovo Regno di Dio? Sarebbe falso pensare che Dio si serve deliberatamente della sofferenza come di una tappa per instaurare il suo regno.  

La sofferenza non è voluta in se stessa, ma diventa un momento ineliminabile, perché l’instaurazione del Regno di Dio avviene sempre in una dialettica di lotta e di opposizione che scatena le forze del male, messe in moto dalla libertà umana

La vittoria sappiamo che è sempre preceduta da una lotta, spesso mortale, e la lotta non è mai un innocuo esercizio di ginnastica, ma è agonia e scontro di avversari.  

Ci possiamo fare allora un’altra domanda che sta all’origine della sofferenza: perché quando nel mondo compare una bontà, c’è sempre una cattiveria che la fa soffrire? Perché il Vangelo che è una parola di pace deve sempre scatenare persecuzione?  

Io leggo ogni giorno il martirologio, cioè un calendario che quotidianamente ti  dice quanti, in quel giorno, nella storia del mondo, furono ammazzati per la loro fede: è un elenco di cattiverie e di crudeltà inimmaginabili, uscite solo da menti cattive, ma anche la visione dei volti che nei tormenti offrono uno spettacolo impensato di serenità e di gioia di fronte alla morte. 

Infatti noi sappiamo che la vittoria sul male è sicura perché Gesù con la sua morte e la sua risurrezione ha vinto tutto il male.

21 Maggio 2020
+Domenico