Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv16, 23b-28)
Facendo pulizia tra le cose accumulate in dieci traslochi – che non auguro a nessuno – ho trovato quattro foglietti polverosi intitolati “cento chiavi per la preghiera”: è una serie di definizioni della preghiera che risalgono a un scritto del 1977 in cui la prima chiave è “Pregare è ascoltare Dio che parla” e la centesima è “Pregare è credere che nel profondo della notte c’è la luce“.
Si passa dal destinatario che, per chi crede, è Dio, alla situazione umana di ciascuno in cui si sperimenta la notte, la solitudine, il buio della vita.
Nel brano di Vangelo che la Chiesa ci propone oggi si tratta della preghiera, e in modo particolare della preghiera nel nome di Gesù: “Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà… perché la vostra gioia sia piena”.
Nella mentalità semitica il nome ha una forza particolare, contiene la potenza della persona che rappresenta: la preghiera fatta nel nome di Gesù – quindi – è una preghiera che nasce da una profonda intimità con Lui, che ci porta a interpretare e a appropriarci dei suoi sentimenti, dei suoi desideri, delle aspirazioni sue; in altre parole è come far pregare Cristo dentro di noi.
Immaginate allora quanto può essere vera efficace la preghiera nel nome di Gesù: i sentimenti di Gesù li conosciamo bene, sono quelli espressi nella preghiera che proprio Lui ci ha insegnato, il Padre nostro.
Lì ci stanno le autentiche istanze della preghiera cristiana: la manifestazione della gloria del Signore, il Padre, la venuta del suo regno, l’attuazione della Sua volontà, il perdono dei peccati, la sua compagnia che ci preserva durante la tentazione; ci stanno le richieste anche del pane quotidiano, perché la salvezza si attua in questo mondo e nella sua storia in cui dobbiamo avere il necessario per vivere.
Quindi possiamo chiedere nel nome di Gesù anche doni pratici, temporali, mettere davanti a Dio le preoccupazioni del vivere di ogni giorno: Gesù si è incarnato nella vita umana, l’abbiamo contemplato nella festa del lavoro, come figlio del carpentiere e carpentiere lui stesso.
Ci sta l’apprezzamento della salute – allora – della vita, della dignità del lavoro, della mansuetudine … le beatitudini tutte insomma, che sono i profondi sentimenti di Gesù. Ci sta il cambiamento radicale di vita personale e sociale che abbiamo intuito durante l’epidemia, su cui preghiamo sempre che si dica la parola fine.
Se alla base c’è il desiderio, la richiesta che si faccia la sua volontà, vuol dire che non daremo la stura ai nostri fini meschini ed egoistici.
Si scrive allora dentro di noi un discernimento generoso, una scelta che coinvolge il prossimo, una domanda che sta nel cuore di Gesù, in tutta la sua vita, in tutto il suo Vangelo.
Questo discernimento non siamo capaci di farlo da soli, perché siamo fondamentalmente autocentrati, e allora supplisce lo Spirito Santo, coi suoi doni che cesellano in noi la figura, il pensiero, i sentimenti, la personalità di Gesù.
Così la nostra preghiera non sarà mai una lagna, una rivendicazione, una pretesa e sicuramente sarà esaudita da Dio Padre.
23 Maggio 2020
+Domenico