Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 17, 1-11a)
Non faremo mai attenzione sufficiente a un rapporto con il Signore di ogni persona umana veicolato dalla preghiera.
Checchè se ne dica, pregare è un atto squisitamente umano: non si tratta sempre di un rapporto con Dio, perché la preghiera matura nella nostra condizione umana quando si snoda nel suo percorso di crescita, di attesa, di costruzione di sé.
Ogni persona si caratterizza necessariamente in una relazione con altri, con qualcuno, con le persone amate, o le persone incontrate: con esse sviluppa desideri che si comunicano e diventano semplici o persistenti invocazioni di amicizia, di relazioni più profonda, di richiesta di compagnia, di aiuto, di ascolto oppure di accettazione di qualcosa di te.
Non è forse così anche l’incontro tra due innamorati, tra cui a mano a mano che si conoscono e manifestano fiducia vicendevole, nasce un desiderio, una richiesta spesso solo intuita, ma in seguito anche significata e espressa?
E’ la più semplice forma di preghiera: non è manifestazione di dipendenza, ma dialogo costruttivo, approfondimento di comunione.
Le celebrazioni eucaristiche di questa settimana – che è imminente alla Pentecoste – ci presentano la bellissima preghiera di Gesù al Padre, che occupa tutto il capitolo 17 del Vangelo secondo Giovanni.
In questa preghiera solo Gesù parla e si rivolge al Padre; il nome “Padre” è l’invocazione, l’unica invocazione continuamente ripetuta: Gesù lo invoca almeno sette volte, cinque senza nessun aggettivo, una volta dice Padre “Santo” e un’altra “Padre Giusto”.
E’ una pagina scritta in simmetria con il prologo, che è la prima pagina del Vangelo di Giovanni, dove si diceva, se ricordate “in Principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio“, dove si annunciava ciò che nella Trinità si viveva e si era deciso circa la missione di Gesù nel mondo.
Qui invece, appena prima della narrazione della passione, morte e risurrezione, Gesù afferma, in forma di preghiera e con il pathos della condizione umana, che tutto quello che era stato incaricato di fare, cioè la missione di Gesù, si è compiuta: non si fa più la fotografia della condizione di ombre e tenebre in cui dall’alto, dalla parte di Dio, si vedeva come era mal combinato il mondo, ma dal basso si contempla, dentro questa terra che doveva essere redenta, e si contempla l’orizzonte della gloria di Dio.
Qui le tenebre sono giunte al massimo della loro oscurità: c’è l’umanità del figlio dell’uomo con i segni del supplizio della croce e con quelli della gloria del Padre.
Non c’è altra pagina di Vangelo così densa in cui le due condizioni di Gesù, quella umana e quella divina, confluiscono nei due termini contraddittori della sua esistenza: morte e gloria.
Queste coincidono perfettamente negli stessi movimenti del cuore e ci aiutano a superare le contraddizioni attorno al centro del mistero profondo, grande, entusiasmante di Cristo, cui si può giungere solo con la fede e non con una sintesi razionale.
Per questo Gesù dice “ è giunta l’ora”, l’ora attesa e invocata da Maria a Cana, l’ora della morte obbediente.
Ciò che andava compiuto, ora è compiuto, è l’ora dell’annientamento di Gesù, ma nello stesso tempo è la più intensa e vera manifestazione del Padre.
La gloria non è vista come il premio della croce, ma la stessa croce: qui è Dio il soggetto stesso di tutto, anche della morte, perché questa è il massimo dell’amore e il Dio fatto carne entra nella totale assenza, nella morte, e vi entra proprio nel massimo del suo amore.
26 Maggio 2020
+Domenico