Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 17, 20-26)
Quante volte, quando veniamo a contatto con persone che stimiamo per il loro rapporto con Dio, le loro preghiere, la loro testimonianza di fede incrollabile chiediamo loro di pregare per noi?
Papa Francesco non termina un angelus senza chiedere di non dimenticarsi di pregare per lui, ed è una gioia scoprire che Gesù, in questa accorata preghiera, prima di affrontare la suprema prova della sua vita sul Calvario, Lui stesso, Gesù, ha pregato per ciascuno noi.
Noi che non abbiamo condiviso con Lui nessun momento di vita, noi che non abbiamo potuto vederlo con i nostri occhi, sentirlo con le nostre orecchie, noi gente di questo nostro tempo turbolento, che sembra allontanarsi sempre più da Dio, noi siamo stati nelle sue preghiere, nel suo cuore, nel suo pensiero, nel suo dialogo con il Padre e continuiamo ad esserci perché lo Spirito Santo viene dentro di noi per rendercelo sempre vivo e presente: lo ascoltiamo ancora oggi nelle parole della sua Chiesa.
Che cosa chiede Gesù al Padre per noi? Che tutti siano uno, «come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi».
Gesù, mentre prega, getta uno sguardo a quanti crederanno in lui e per i suoi apostoli e per tutti noi invoca l’unità, che ha due dimensioni: una invisibile, che è la comunione stessa con la Trinità, e l’altra visibile, capace di convincere il mondo che Gesù è davvero inviato da Dio Padre.
Nel suo commiato da noi si identifica con l’amore reciproco spinto fino al dono della propria vita: Giovanni parla della Chiesa solo in questi termini, e lancia più di uno spiraglio, una luce vera, che si farà fiaccola, che in nostra compagnia ci aiuta a camminare nelle nebbie della vita, e fa da riverbero di misericordia sul mondo che non crede in Gesù.
Abbiamo la gioia e il compito come cristiani di fare da capofila di una umanità già tutta redenta, anche quella che non è consapevole di questo grande dono di Dio: non ci possiamo permettere di lasciare fuori nessuno da questa unità, anche i nemici nostri e i nemici di Dio.
Forse oggi siamo divisi, perché abbiamo pensato che fare unità si potesse fare attorno a un tavolo di concertazione, con i nostri metodi tipici del “passo indietro tu, un passo indietro io, andiamo d’accordo, vediamo com’è, se a me serve …”
La gloria di Dio non si manifesta moltiplicando i discorsi su Dio o difendendo i diritti di Dio: infatti si è manifestata nella morte di Dio, nell’estremo annichilamento nel quale anche la Parola – con la P maiuscola – ha taciuto.
La teologia della gloria è la stessa teologia della croce: non possiamo allora accedere a questa gloria se non ci si apre all’amore con cui il Padre ha amato il Figlio, già prima della creazione del mondo, e che ha trovato il suo punto finale nella morte per la salvezza di tutti gli uomini.
Certo noi intelligentoni potremo fare tutti i nostri ragionamenti più contorti e difficili, profondi e logici, ma il Dio che ci inventeremmo sarà sempre un Dio senza gloria, ed è senza gloria perché è senza croce.
La Chiesa per cui Gesù, prima di andare a morire in croce prega, è sempre illuminata dal quell’ «io ho fatto conoscere loro il tuo nome»: non è una dotta teologia che ce lo fa conoscere nel senso biblico di esperienza coinvolgente ogni nostra persona, ma il silenzio di Dio, quello del Figlio dell’uomo appeso sulla croce.
E il dono finale della preghiera di Gesù è: “che l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”, e dobbiamo dircelo sempre, anche in questi tempi di “distanza fisica”.
28 Maggio 2020
+Domenico