Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 8, 23-27)
Nella nostra vita spesso c’è un piattume soffocante, una ripetitività che ti toglie anche la fantasia, sempre le stesse cose, gli stessi orari e altre volte invece ti capita l’imprevedibile e, se non sei allenato, trionfa la paura, la fatalità, la rabbia e combini ciò che non saresti mai riuscito nemmeno a pensare.
E’ una notte di questo tipo che capita agli apostoli dopo giornate belle di rapporto con la gente, di segni di salvezza compiuti da Gesù, di miracoli, diciamo noi oggi.
E’ una tempesta improvvisa che mette in pericolo la vita di tutti gli apostoli che con Gesù stanno andando da una riva all’altra del lago di Tiberiade: Si scatena la paura ed è panico assoluto.
E’ l’immagine della nostra vita, dei nostri sentimenti, dei tessuti di relazione con il nostro prossimo, che improvvisamente sfocia in una esperienza di dolore: in questo stato andiamo a cercare aiuto, vogliamo trovare qualche riferimento che ci permette di stare in piedi, di capire, di dare un senso a quello che ci capita.
Quel Dio che prima ritenevi un soprammobile ora lo cerchi, lo accusi, lo chiami in causa: “Dio, tu dove sei? Perché mi fai capitare tutto questo?” E scopriamo che Dio è assente dalla nostra vita: abbiamo sempre vissuto come se non esistesse, lo abbiamo ritenuto ininfluente, abbiamo programmato sempre la vita senza di Lui.
E sì che dicevamo ogni giorno le preghiere! Ma erano appunto le preghiere, le formule, non La preghiera: abbiamo giocato soltanto!
Anche i discepoli avevano Gesù a disposizione tutti i giorni, ma vi si erano quasi abituati: Lui doveva risolvere tutti i loro problemi, quasi si sentivano in diritto di restarne protetti; invece stavolta non se ne cura, sta dormendo beatamente. E’ assente, non risponde, non risolve un bel niente, è solo un peso.
E’ la domanda di molti di fronte al male del mondo, di fronte alle morti degli amici, di fronte alle ingiustizie. Molti ragazzi, per esempio, cominciano ad abbandonare la chiesa, si ribellano all’assenza di Dio, perché credono che Dio dorma sulle loro vite e le loro vicende. Il silenzio di Dio suscita in noi paura e disappunto, però non abbiamo il coraggio di domandarci prima: “ma io credo in Dio? Ho sperimentato ancora la bellezza dell’abbandono nelle sue braccia? So di stare a cuore a lui? Mi sono mai affidato a Dio in maniera sincera?”
In questo dolore che si prova, Dio è sparito, ma non c’era già più da un pezzo: è da una vita che andiamo avanti senza riferirci veramente a Lui.
Gli apostoli allora lo svegliano e lo rimproverano: “Non ti importa che moriamo?” Che significa questa tuo assoluto estraneamento? E’ un grido e un rimprovero, è una disperazione e una rabbia, è una constatazione e una pressante richiesta.
E Gesù pensa: “Tu sei un palpito del cuore di Dio e vuoi che a me non importi niente di te? Io ti ho amato fino a morire per te e tu credi che io abbia abbandonato la mia missione? Tu mi sei stato affidato da Dio, mio Padre e credi che io non sia deciso a fare tutto quello che è necessario per te? Sono io che dormo o sei tu che non hai fede?”
Allora destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati! ”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia: in realtà non è Gesù che dorme, ma la nostra fede in colui che salva che manca.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 16, 13-19)
Lo domanda il ragazzo alla ragazza: si sente ora abbracciato e baciato, ora amato e lasciato, ora alle stelle per l’amore corrisposto, ora abbandonato e solo; lo domanda la moglie al marito che si sente sequestrata in casa, o il marito alla moglie, quando si sente un soprammobile; lo domanda un figlio ai suoi genitori: talvolta si sente di nessuno, qualche altra volta è soffocato da non potersi esprimere; lo domanda un prete al suo vescovo per sentire se ha ancora un padre cui affidare la sua passione per il Vangelo; lo domandiamo tutti a Dio, quando non ci bastano i ruoli ufficiali della vita, quando vogliamo uscire dalla nostra autosufficienza che ce ne ha allontanato e ha provocato solitudine e spesso peccato.
Non è una domanda innocente, è una domanda che si porta dentro una pretesa se non un rimprovero: è una invocazione di relazione vera, è desiderio di essere chiamati a vivere in maniera nuova, autentica.
Gesù ha davanti a sé il suo seminario di apostoli, di gente che vuol condividere con lui la passione per il Regno: “Ma avranno capito questi chi sono? Come potranno sostenere tutte le prove della vita se per loro sono solo uno che fa miracoli, o un predicatore di grido, o uno che sa tener testa ai violenti, che sa parlare schietto, che sa risvegliare dal torpore. Soprattutto come faranno a entrare nel Regno dei cieli se fissano il loro sguardo solo sulla storia che li precede? Sapranno fare un salto nella assoluta novità del Regno di Dio? Come faranno ad accettarmi risorto, quando sarò stato crocifisso e cancellato non solo dai loro occhi, ma anche dalla loro stima e dalla loro fede.”
Gesù si mette in gioco: rischia il primo abbandono. Ce ne saranno tanti dopo l’ultima cena: nel Getsemani, nel pretorio, sul Calvario, ma anche sulla via di Emmaus con quei due che raccontano la loro pasqua con tutti quei verbi al passato … speravamo … ci hanno detto, ma noi non abbiamo visto nessuno … oppure con Tommaso che stenta a credere.
Nella vita occorre sempre essere veri: tutti devono fare un passo per uscire da sé e accettare la novità, nel suo caso la novità definitiva del Regno di Dio.
E’ una domanda che anch’io sto facendo a Gesù … è una domanda talvolta gioiosa, talvolta demenziale: “Gesù, ma chi sono io per te?”
Non ho dubbi sulla risposta, che poggia sulla certezza di una chiamata cui hanno aderito per me la prima volta i miei genitori quando sono stato battezzato: quella domenica 7 giugno la mamma era andata a dottrina nel pomeriggio come sempre, aveva percepito che stavo nascendo, ero già il quarto e non c’erano paure di sorta.
Sono nato al calar del sole e il venerdì successivo, festa del Sacro Cuore – allora festa di precetto – secondo le consuetudini del tempo che volevano che il battesimo venisse celebrato la prima festa di precetto dopo la nascita, sono stato battezzato a Dello, nella chiesa di San Giorgio.
Gesù, io posso anche non sapere bene chi sono, ma so che sono stato immerso nella tua morte e definitivamente rinato nella tua risurrezione; in seguito ho cominciato a rispondere io, nei lunghi anni del seminario ho incominciato a rispondere, il giorno della ordinazione presbiterale, tutti i giorni della mia vita da prete e infine in quel pomeriggio di Pentecoste a Palestrina da Vescovo.
Non so chi sono, ma mi hai chiamato tu: mi basta questo! Mi sento sicuro nelle tue braccia, che so non essere un elenco o una rubrica, o una mailing list, ma un rapporto vivo di amore, una amicizia senza se e senza ma e soprattutto senza ripensamenti.
Anche i giovani del Kazakistan domandavano a Giovanni Paolo II nel 2001, dopo il terrore delle torri gemelle: chi sono io per te papa Giovanni? E lui rispondeva: tu sei un disegno di Dio, tu sei un palpito del cuore di Dio. Siamo sempre amati a dismisura da Dio!
E’ una domanda che ho fatto per 12 anni a Palestrina: “Chi sono io per voi?” Per la risposta occorreva andare al di là del vocabolario che era fatto di “eccellenza”, di “eminenza”, perché si esagerava sempre per tradizione.
Non sapevo ancora che cosa potevano rispondere a questa mia domanda impertinente, ma io sapevo che venivo ogni giorno misurato da affetto, da attesa, da pretesa, da domande urgenti, da richieste di cammino, da invocazioni di decisioni, da sete di Vangelo; e sapevo che Dio mi aveva dato possibilità di rispondere a partire dalla vita e dalla fede di questa terra in cui sono nato e in cui mi trovo a concludere i giorni della mia vita e dal giorno dell’ordinazione in piazza davanti alla cattedrale di Palestrina: quel giorno restava sempre un riferimento per trovare la consapevolezza che Dio compie sempre miracoli e che è Lui a guidare ogni sua Chiesa.
Ma soprattutto questo “chi dite che io sia” è una domanda che Gesù fa a me, ed esige la risposta ingenua, immediata di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Tu sei il consacrato che ha tirato dentro in questa consacrazione anche me, sei il mandato che si è degnato di mandare anche me, sei il Messia, l’atteso che associa in questa attesa dell’umanità anche me. Sei Figlio a Dio come hai fatto diventare anche me. Sei il pastore che mi ha tolto dalla comoda routine in cui mi stavo rifugiando per chiamarmi a portare il tuo nome ad ogni fratello: mi hai tolto dalle secche del pensare a me per aprirmi a servire una tua porzione di regno, e oggi mi chiami a riposare fisicamente, ma sempre mi chiedi di vivere bene da cristiano, da prete, da vescovo e di non chiudermi mai agli altri.”
Oggi Gesù rifa a tutti noi questa domanda e ci aiutiamo a rispondere a dire: “Tu, sei Gesù il Cristo, Figlio di Dio vivo. Sei il rivelatore del Dio invisibile, sei il primogenito di ogni creatura. Sei il fondamento di ogni cosa. Sei il maestro dell’umanità, e il Redentore. Sei colui che ci conosce e ci ama. Sei il compagno e l’amico della nostra vita. Sei l’uomo del dolore e della speranza. Sei la pienezza della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. Sei il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, tua madre nella carne, e madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.”
E lo dico qui in una chiesa, la nostra chiesa, quella che rappresenta da secoli la nostra comunità cristiana che deve essere resa sempre più abitabile da tutti.
La parrocchia è la casa di tutti, la casa dove si apprende la fede: se non avesse nient’altro che il Vangelo da offrire agli abitanti di Dello, avrebbe già tutto quello che ci aspettiamo da Lei.
Se mi permettete sono qui a dirvi che senza giovani cristiani la nostra parrocchia non avrà futuro: ci sarà una bella chiesa, una bella torre, un bel castello, ma saranno solo per fare le fotografie e non per dare speranza e gioia agli uomini del futuro.
Ci dobbiamo sbilanciare dalla loro parte, dalla parte dei giovani, non per accontentarli, ma per leggere in loro i doni che Dio ci ha dato e per farli fruttificare.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 10, 37-42)
Se ci lasciamo impressionare dalla mentalità comune, oggi, soprattutto anche in qualsiasi social ti metti, si pensa che la fede cristiana sia una proposta di vita per persone deboli, docili, appiattite sulla remissività, amanti del quieto vivere, della routine e non invece per gente coraggiosa, decisa, forte, travolgente, volitiva, dura, amante del rischio, capace di imprese grandi.
Insomma a un certo punto nella vita, e i cristiani questo punto lo pensano il più presto possibile, occorre mettere la testa a posto. Basta girare – anche se oggi si chiama Erasmus – basta stare a farsi mantenere – oggi che si fa fatica a trovar lavoro – basta fare volontariato o la protezione civile: ti devi mettere negli affari perché la vita costa e ti devi mantenere e soprattutto fare il furbo, altrimenti sarai sempre sotto qualcuno. La libertà non fartela regalare, ma conquistatela da solo, altrimenti dipenderai sempre. E via di questo passo …
La fede? È una debolezza che puoi dimenticare presto: ne vedi ancora di tuoi amici che vanno a Messa?
Se invece perdiamo un po’ di tempo ogni tanto e leggiamo una pagina di Vangelo, Gesù non sembra proprio dia questa impressione di religione “tranquilla” quando dice: “non son venuto a portare la pace, ma la spada; chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; ho un fuoco da portare nel mondo e ardo dal desiderio che tutto il mondo ne venga incendiato.” Se ricordate sono le parole che san Giovanni Paolo II diceva ai due milioni di giovani a Tor Vergata nel 2000, vent’anni fa.
Credere in Gesù è cosa di anime grandi e coraggiose, di gente che è capace di decidersi, che non sta tutta la vita con un fiore in mano a lasciare al numero dei petali di scegliere che cosa fare, tanto una cosa vale l’altra: essere cristiani è stare senza mezzi termini dalla sua parte, dalla parte del bene, del dono, del disinteresse, dell’amore.
Il cristiano sa di avere davanti cose alte per cui impegnarsi, una vita da mettere a disposizione, un costo da pagare del quale non si spaventa. Chi non prende la sua croce dietro a me non è degno di me. Gesù sa che la vita è sempre in salita, che le difficoltà sono in agguato sempre ad ogni passaggio, ad ogni decisione importante che si fa. E’ lui per primo che fa così, che abbandona tutto per il Regno di Dio, che si mette a disposizione del Padre; è lui che per primo non ha paura della croce, è Lui che rende la faccia dura come la pietra di fronte a chi lo insulta e lo fa soffrire, è lui che non si attacca alla sua vita, ma la dona.
Se vuoi vivere il cristianesimo che merita la tua vita, devi sempre avere davanti Lui, coraggioso, ma mansueto; deciso, ma attento a non spegnere le piccole speranze che nascono nel cuore di ogni uomo o donna; duro contro il male, ma tenerissimo con il bisognoso, pieno di amore e non di piccoli inganni e di continuare a spostare la decisione di scegliere la persona cui donare la vita: non stai a convivere, a far le prove per anni e anni per vedere se vi volete bene, sempre con un piede levato.
Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca a questi piccoli, non perderà la sua ricompensa, avrà parte al suo regno definitivo, sarà accolto nelle braccia del Padre. Essere cristiani è così: è contemplare lui, vedere nel suo volto il Padre e servirlo nei fratelli, anche con piccole cose.
Ma c’è ancora qualche papà o mamma che desidera avere i figli così o interessa loro di più solo che non si droghi, che non scorrazzi pericolosamente in moto, che si diverta intanto che può, perché poi presto finirà ad essere come noi? Perché? dove siamo finiti noi? Non siamo contenti di una vita onesta, di poter camminare a testa alta, di fidarci di Dio, che ci ha aiutati a portare tutte le croci della vita?
E che speranza abbiamo però di poter essere cristiani così? Abbiamo la certezza della sua presenza in noi con lo Spirito Santo, la speranza di ogni nostro respiro quotidiano.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 8, 5-17)
Forse siamo degli “abituati” al cristianesimo e abbiamo bisogno di qualche scossone da parte di chi è lontano dalla fede le mille miglia e che da questa sua posizione, mosso dalla grazia di Dio, scopre la bellezza della vita cristiana a cui non ci siamo troppo abituati: il suo slancio è un grande stimolo per riflettere sul nostro essere abituati alla fede come al colore delle pareti, perché la fede è sempre novità.
Con Dio non ci si può abituare: se non ci sentiamo bisognosi di salvezza davanti al Signore c’è proprio da temere che la nostra religiosità sia una pura formalità svuotata di fede.
Gesù, con insistenza quasi irritante, sottolinea la fede di un centurione comparandola espressamente a Israele che è l’immagine esatta di tanti di noi: i paragoni sono sempre odiosi, ma Gesù non ha paura di scalzare quella comoda opposizione sprezzante tra noi e loro, quelli dentro e quelli fuori, quelli che vanno in chiesa e quelli che non ci vanno mai, i cattolici e i laicisti, il nostro giro ben affiatato e questi appena venuti …
Un ufficiale dell’esercito romano, che seguiva da lontano Gesù nella sua predicazione, probabilmente si doveva mescolare alla folla per dovere di vigilanza, e sentendo Gesù era rimasto colpito della sua visione del mondo, dell’amore che cercava di accendere, del potere di sconfiggere il male.
Si decide, pur sapendosi troppo lontano dal mondo che intuisce praticato da Gesù, gli va incontro e gli dice: “Ho un servo che mi sta morendo, paralizzato, e soffre terribilmente. Tu puoi fare qualcosa. Io non sono del tuo mondo, sono qui per dovere, ho mansioni da eseguire, ma anch’io ho un cuore, ho degli affetti, ho una casa dove non sempre tutto è tranquillo. Ho anche potere perché a uno dico fa questo e lui lo fa, vai là ed egli ci va. Ma ci sono problemi più grandi di me: la salute per esempio non è sicuramente in mio potere. Gli altri mi vedono forte, perché sono un soldato, ma non sono le armi che contano nella vita. Ho bisogno di Te per la vita di questo servo che desidererei non si spegnesse.“
E Gesù non manca di far notare a tutti quelli che lo ascoltavano, tra i quali c’erano anche i signori della legge: “trovassi una fede così in Israele, ma nemmeno un pizzico ne ho veduta. Vi devo portare ad esempio un romano, non certo tenero con le nostre tradizioni? Questi, che voi dite pagani, vi soppianteranno nel regno di Dio e dice al centurione: vengo da te, vengo a casa tua.”
Ma il centurione non ha una casa in ordine per un ospite così grande, per quel Gesù che gli sta sconvolgendo la vita, e dice: “ho osato troppo, nella mia casa non saresti onorato come ti meriti. Mi basta una parola, dì soltanto una parola: tu sì che veramente hai in mano le chiavi della vita. Mi devo cambiare dentro, devo togliermi dal cuore il male che per troppo tempo ha avuto tutte le possibilità di rovinarmi i sentimenti e i pensieri. Ti vorrei avere, ma con un cuore nuovo. Mi basta la tua parola potente.“
Gesù lo ascolta, coglie la grande delicatezza del soldato, ne vede la gratuità, ne avverte l’adorazione e dice la parola che salva: “Va e sia fatto secondo la tua fede“.
In quell’istante il servo guarì: quella allora era fede autentica!
Ed è il secondo dei dieci miracoli di questo “ciclo” di Gesù.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 8,1-4)
La malattia della lebbra non fa più parte delle nostre conoscenze popolari: è malattia che a noi da ragazzi veniva spesso presentata, perché figure di uomini santi e donne sante li hanno sempre curati – questi lebbrosi – con grande dedizione e seppero sensibilizzare le società di quel tempo perché non segregassero questi malati dal mondo civile e dalle stesse nostre nazioni.
Ricordo san Damiano de Veuster, nell’isola di Molokai, tutte le iniziative che convergono alla giornata dell’ONU per debellare la lebbra, inventata praticamente da Raoul Follerau.
Gesù li sa confinati al di fuori della comunità giudaiche per motivi di contagio, rifiutati dai benpensanti, ritenuti peccatori e castigati da Dio … e Gesù sceso dal monte quasi novello Mosè, porta al popolo di Israele non più le dieci parole, i dieci comandamenti, ma la forza risanatrice del corpo e dello spirito attraverso dieci azioni, dieci miracoli, che portano salvezza a dodici destinatari come se fossero le dodici tribù di Israele, e il primo di questi miracoli è l’ascolto accorato e immediato di un lebbroso, l’impuro per eccellenza.
Nella sua carne progressivamente mangiata dal morbo è visibile la condizione di ogni persona da quando si nasce. La vita – se volete – è l’unica malattia incurabile, anzi mortale, perché finisce.
Il lebbroso è un morto civile e religioso che non può aver parte con gli altri per non infettarli. Questo lebbroso invece si avvicina senza nessuna mediazione, adora Gesù e lo chiama Signore, che non è un titolo di cortesia come lo si usa tra noi, ma una professione di fede.
Vuole guarire: lo chiede al Signore, non lo pretende, lo attende dalla sua libera volontà … e allora Gesù tende la sua mano: lui è sempre dono che attende chi lo accoglie.
Lo tocca: Gesù tocca l’intoccabile; Lui è Dio proprio per la sua grande misericordia.
La fede è toccare, meglio … essere toccati da Gesù.
Dio non è legge che vieta il male e divide buoni da cattivi, non è nemmeno coscienza che rimprovera, ma è padre e madre vicino sempre ai bisogni del figlio.
Gesù ti tocca dentro, ti cambia l’esistenza, con la sua parola ti tocca il cuore e te lo rifa nuovo.
Come con la sua parola Dio ha creato l’universo, così quel lebbroso subito fu mondato dalla lebbra ed ogni persona è mondata dal suo peccato.
Il tocco interiore della sua parola, ci libera dalla morte, ci guarisce, ci fa figli e fratelli in un processo che dura tutta una vita. Con Gesù non siamo più schiavi della paura della morte che domina la vita, ci libera dal veleno del peccato.
Quell’invitare il lebbroso guarito ad andare dal sacerdote del tempio è mettersi nel solco del compimento della legge, e Gesù è un buon ebreo e non salta mai il dettato della Torah, della legge, ma la apre a un suo compimento più largo, più profondo, nuovo come la sua vittoria sulla morte, come l’effusione sulla comunità dello Spirito Santo.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 7, 21-29)
Si fa molto spesso una critica precisa ai credenti, ai cristiani …. si dice “voi continuate a parlare, sapete ben riempirci di parole, ma che fate di bello? Possiamo vedervi concretamente nella pratica della vita di ogni giorno? Io lavoro, non ho orari per tutti gli impegni che ho per mantenere la mia famiglia, per stare dietro ai miei figli o per prepararmi a un futuro che valga la pena di vivere e voi che fate?”
Gesù nel Vangelo è molto esplicito: “Non chiunque mi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà di Dio, chi fa la mia stessa parola”.
Il dire “Signore, Signore …” è riconoscere Gesù come Dio, è già un atto di fede vero, non è una chiacchiera, è una liturgia; ma Gesù vuole un fare.
Gesù non rimprovera una mancanza di coerenza, che pure è evidente, ma stigmatizza chi si crede a posto dicendo, ascoltando solo la parola, senza che Gesù diventi fino in fondo il Signore della sua vita, senza che le parole si portino dentro tutto il nostro vissuto.
E per essere ancora più chiaro fotografa il vivere la fede nella casa che uno costruisce, che non sarà mai semplicemente una tana dove ci si ripara, ma un luogo di relazioni, di intimità, di amore dove ci si realizza.
Se il nostro credere è paragonato a una casa, è giusto domandarsi su quali fondamenta la costruisco; roccia sicura di questa costruzione è la parola di Dio ascoltata e fatta: chi ascolta e fa.
Noi troviamo un po’ troppo semplificato questo fare, e diciamo in genere “mettere in pratica”: qui è importante però che non si stacchi l’ascolto della parola dal fare concreto.
Se ci sta la sua Parola fatta nella vita di ogni giorno, allora la casa non crollerà mai: le difficoltà, le acque travolgenti, le bufere della vita non mancheranno … ne avremo sempre troppe, fino alla strettoia finale della morte, alla cui dogana non passa nulla di ciò che hai, ma solo l’amore che sei, che vivi, che ti riempie, solo una Parola “fatta”.
“Chi invece ascolta le mie parole e non le fa – notiamo che l’ascolto della parola è garantito in questo uomo, ma negato il fare – costruisce sulla sabbia, e la casa sicuramente cade, la sua vita si sfascia”: chi non fa le parole di Gesù, fa altre parole; invece di costruire su Dio costruisce sugli idoli, sui piccoli dei del momento, che sabbia sono e nessuna minima solidità.
A scanso di equivoci chiariamo anche una classica critica: “ma allora tu fai dire a Gesù che non conta la fede, ma solo il fare” … Lo sbaglio è molto prima: è quando si stacca il dire dal fare, il pensiero dalla realtà … nega la carne della fede che diventa un dire e pensare il nulla, un privare la verità dalla sua realtà.
Chi non costruisce sull’amore vien sepolto proprio da ciò che ha costruito per vivere: è una costante della vita cristiana.
Ricordate: “se stai offrendo all’altare di Dio … e qualcuno ha qualcosa contro di te…lascia lì la tua offerta, va a riconciliarti … poi vieni e offri.”
Gesù stesso è una Parola fatta carne: nella fede non ci sono enti solo di ragione, ma sempre parole di questa concretezza.
Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 1,57-66.80)
C’è una esperienza bellissima che fa l’umanità: la nascita di un bambino.
Apprensione, preoccupazione, orgoglio, gioia di avere un erede, attesa di una vita che sicuramente sconvolgerà l’esistenza di tanti … oggi, di san Giovanni il Battezzatore – il Battista – si celebra anche la nascita, non solo la morte come capita di tutti i santi.
Nel grembo di Elisabetta, Giovanni scalzava: le note del magnificat di Maria lo preparavano alla sua missione … e venne finalmente il tempo della sua nascita.
Il vecchio Zaccaria ha passato la settimana più bella e stupita della sua vita: l’attesa, la consapevolezza di un segno misterioso di Dio, la tensione e la speranza, il timore e lo stupore, il sentirsi ancora muto davanti a questo bambino che presto avrebbe voluto parlare con lui hanno riempito la settimana che ha separato la nascita dalla circoncisione.
C’è un nome da dare al bambino: in ogni casa, in ogni famiglia è sempre un momento bello; c’è una tradizione da rispettare: così si chiamava il nonno, così si chiamava la zia, così dovrebbe chiamarsi … ma che suono avrà questo nome sulla bocca di chi lo chiamerà? Forse lo storpieranno! Ma c’è anche ogni esperienza di papà e mamma, non solo la tradizione, che può portare novità; purtroppo talvolta è solo ideologia o infatuazione televisiva se non un basso servilismo agli idoli del tempo.
Il nome invece è una vocazione: è un progetto, è una storia, è un passato aperto al futuro; è l’accoglienza di un compito.
E mentre Zaccaria scrive su una tavoletta “Giovanni è il suo nome” ritorna a parlare: è finito l’isolamento, ha capito la lezione, ma ha il cuore pieno di gioia e le cose che dirà resteranno memorabili nei secoli. Il silenzio non fu vano!
E la gente si chiede “Chi sarà mai questo bambino?”
Sarà un dito puntato verso il futuro? Sarà la fine di una tribù sacerdotale per indicare l’inizio di una nuova era? Nel ruolo di suo padre come sacerdote del Tempio non ci si troverà più: il tempio non gli darà più risposte vere al suo anelito di Dio; le voci dei profeti cominceranno presto a risuonare nella vita austera di Giovanni, e lui lascia la casa, lascia la casta sacerdotale e si stabilizza nel deserto.
“Chi ha a cuore i disegni di Dio mi segua, e la gente non lo abbandona più: fa rinascere solo speranza, li strappa dal torpore dei supermercati anche del sacro, richiama la gente all’essenziale, sferza soldati, vigili urbani e banchieri.
Avete in cuore una profonda sete di Dio, sentite urgere dentro una aspirazione insopprimibile e la spegnete con la droga, con l’ecstasy, con i compromessi!
Sentite desiderio di interiorità e sperate di trovarla nei talk show? Giovanni non ha mezze misure.
Avete desideri di affetto pulito e profondo e vi prendete le mogli o i mariti degli altri? Gli costerà caro questo parlare chiaro a Erode: la sua testa stessa come premio di un ballo! Ma lui, Giovanni, non demorde, e Gesù non potrà non seguirlo: i cugini si incontreranno sulle rive del Giordano, in questo rito purificatore necessario per cominciare a vivere in maniera nuova, e quando Giovanni vedrà Gesù, si sentirà subito superato.
Lui è la voce, Gesù è la Parola: lui sa di dover aprire una strada, ma la strada è di Dio, non è quella che decide lui; Dio è più grande di ogni sua vista, e si ritirerà, perché Gesù sarà il colpo d’ala che staccherà definitivamente il vecchio dal nuovo, il passato dal futuro.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 7, 6.12-14)
Che tutti noi siamo autocentrati non occorre dimostrarlo: iniziamo da bambini a dire “questo è mio” e ci stringiamo al petto i giocattoli, litighiamo con i fratellini, ci mettiamo a urlare o a piangere se ci portano via qualcosa … finchè questo atteggiamento ci aiuta a costruire una nostra giusta identità è una bella cosa, sarebbe peggio se non sentissimo di niente o non ci importasse niente di noi stessi! Ma prima o poi bisogna fare il salto dell’attenzione all’altro, bisogna fare attenzione alle primissime avvisaglie dell’amore, che pure fa parte della nostra identità di persone.
Purtroppo molti non riescono a fare questo salto.
Gesù nel vangelo con una concretezza che va dentro al proprio sentire, ma che diventa subito un “fare” ce lo pone come panorama della nostra vita: “Quanto dunque volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fatelo a loro”.
Intanto la prima chiarezza è che l’amore si esprime nel fare: l’egoista fa per sé e pretende che gli altri facciano per lui: pone il proprio io al centro di tutto; è il classico buco nero che fagocita tutto, con una forza di gravità, di attrazione che fa proprio attorno a sé un buco, che non è mai pieno, che non si vede nemmeno perché si tira dentro anche la luce.
Chi ama invece “fa” per l’altra persona: pone proprio questa al centro di sé; diventa come una sorgente che diffonde energia e luce. E’ un immancabile punto di partenza per arrivare a un amore disinteressato, all’amore senza misura, che sta al centro del messaggio di Gesù.
Già questa è una porta stretta per la quale entreranno tutti quelli che riescono a capire fino in fondo il messaggio d’amore di Gesù.
Avremmo o no un mondo molto diverso da quello che ci stiamo costruendo oggi, se tutti accettassero di amare gli altri come amano se stessi!? Certo, prima magari di ammalarsi di frustrazione, di odio alla vita, di disistima di se, provocata comunque sempre in noi da un amore che ci è mancato.
Invece purtroppo il mondo non è diverso perché anche noi che ci diciamo cristiani non abbiamo il coraggio di essere coerenti con questo principio panoramico di volere sempre per gli altri il bene che vogliamo per noi: pensiamo al mondo dei migranti, al sottile – non troppo, se pensiamo a quanto è successo in America – razzismo che ci sta infettando l’animo, pensiamo al “prima gli italiani”, che si ferma ancora solo all’amore verso se stessi, che pure è un buon punto di partenza, ma non il traguardo di una vita.
Io so bene quali sono le mie attese, i miei diritti sull’altro: Amare è capovolgere le proprie attese in attenzione verso l’altro, i propri diritti in dovere verso di lui.
Per chi ama, i bisogni dell’amato diventano suoi impegni: questa semplice frase del vangelo inverte la tendenza egoistica di porre se stessi al centro di tutto.
Noi, che sappiamo di essere già al centro dello stesso Dio Padre, abbiamo la possibilità di diventare come Lui se come Lui poniamo al centro gli altri: quel “siate perfetti come il padre mio” non è una esagerazione, ma un ideale concreto che Dio in Gesù ci regala.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 7,1-5)
Possibile che tutte le volte che abbiamo l’occasione di trovarci assieme, anche in chiesa o negli ambienti di volontariato, di protezione civile … sentiamo sempre la necessità di guardare gli altri per stabilire subito gerarchie di bravura, di simpatia, e magari pure di bontà morale?!
Non ci nasce perlomeno un dubbio che abbiamo tutti da perdonarci qualcosa invece che giudicarci, che stabilire subito gerarchie di dignità, con il disprezzo o addirittura con la calunnia per squalificare sempre gli altri?!
Gesù dice con molta chiarezza e forse durezza, non certo malanimo, che “col giudizio con il quale giudicate o misurate, sarete giudicati e misurati”: questo viene detto soprattutto a noi che ci crediamo buoni, noi che abbiamo accolto il suo messaggio e ci sforziamo di attuarlo.
Abbiamo continuamente la tentazione di guardarci attorno, di stabilire delle differenze che come credenti ci riduce ad incarnare il perfetto fariseo: quello che si occupa soprattutto della sua immagine, della sua esemplarità, della sua conquista di qualche modesto traguardo di bontà, ben messo in vista magari, che prega nel tempio ritto in piedi e guarda con compassione il poveraccio che al fondo della chiesa si batte il petto.
Se tutti gli uomini e le donne fossero come noi, allora si che la Chiesa sarebbe più convincente potrebbe contare su di noi, mentre invece con tutti gli altri sarebbe la mediocrità, se non la sua fine.
Ecco, spero che questo pensiero, questa battuta non sia per un buon cristiano nemmeno una tentazione: ogni cristiano deve avere un punto di forza da vivere interiormente e manifestare nella misura che Dio gli concede, cioè la consapevolezza esplicitata senza tanti formalismi o false umiltà che solo Gesù Cristo è la bontà, la mitezza, la santità, la mansuetudine, la veracità e la verità che deve essere in evidenza sempre.
La figura di santità che ogni cristiano deve imitare, deve farsi cesellare interiormente dallo Spirito Santo: è solo Gesù Cristo e davanti a Lui diventa terribilmente difficile nascondere la trave che abbiamo negli occhi.
Uno sguardo obiettivo sulla nostra vita basterà a convincerci che abbiamo tanti motivi per amare, per rispettare, per valorizzare benevolmente i nostri simili, con i quali Dio ci conceda di fare passi, decisi, condivisi di mutuo aiuto e di santità.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 10,24-33)
«Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Non è raro trovare un cristiano che ha paura a testimoniare la sua fede religiosa, il suo credere, il mondo di valori cui si affida, le convinzioni radicate nella sua educazione familiare.
E’ un comportamento che si chiama vergogna, latitanza, nascondersi dietro un dito, mancanza di coraggio, anonimato … e questa paura talvolta viene camuffata anche da dialogo, da ascolto, da umiltà, da libertà massima che deve essere lasciata alle persone per aderire alla fede, tutte doti vere e necessarie, che vanno sempre però coniugate con una identità forte del cristiano: una identità non prevaricatoria mai, ma disponibile a offrire quella speranza che ci è stata data e che non è nostra, una Parola che viene da oltre.
La paura cresce poi se si sperimenta il rifiuto: l’invio in missione da parte di Gesù, infatti, non garantisce necessariamente ai discepoli il successo, così come non li mette al riparo dal fallimento e dalle sofferenze, per cui essi devono mettere in conto sia la possibilità del rifiuto, come la possibilità e perfino l’inevitabilità della persecuzione.
E’ sempre stata storia delle nostre comunità e della nostre aggregazioni di cristiani quella di far crescere persone disposte fino al martirio a difendere e proporre la nostra fede, e lo è anche oggi nei contesti di intolleranza nei confronti della fede cristiana
Molte ragazze hanno dato la vita per difendere la propria verginità, del resto un discepolo di Cristo non può che conformare la sua vita a Lui, deve seguire il modello che è Cristo respinto e perseguitato dagli uomini, che ha conosciuto il rifiuto, l’ostilità, l’abbandono, e la prova più atroce che è la croce.
La persecuzione non è eventualità remota, ma una possibilità sempre attuale: non esiste missione all’insegna della tranquillità.
Forse per molti di noi il coraggio della fede non ci chiede eroismi, ma pur sempre ci chiede di confrontarci con l’indifferenza, con la irrilevanza, con una mentalità supponente contro cui si deve sempre almeno resistere e dialogare; ci chiede di essere sempre attaccati alla Parola di Dio, ma anche concretamente di vivere da cristiani difendendo il povero, l’immigrato, il rom, il lavoratore sfruttato, offrendo buone testimonianze di vita – anche se non del tutto capite – che possono far crescere speranza e dare compagnia e conforto alle troppe solitudini e sofferenze umane.
Non andiamo in cerca di sconfitte o di disprezzo, ma nemmeno di indici di gradimento: siamo sempre desiderosi di spenderci per la vita di tutti, mettendo la nostra nella mani di Dio.