Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 16,5-11)
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
«Ora vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: “Dove vai?”. Anzi, perché vi ho detto questo, la tristezza ha riempito il vostro cuore.
Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi.
E quando sarà venuto, dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il principe di questo mondo è già condannato».
Audio della riflessione
Ognuno nella vita fa purtroppo esperienza di schiavitù, di catene, di costrizione. È la schiavitù della malattia che ti costringe in ospedale o inchiodato in un letto, attaccato a flebo o costretto in ingessature; è la schiavitù di qualche vizio o cattiva abitudine che non ti lascia correre nella via del bene; è la morsa della droga che ti porta sempre a dosi maggiori e ti rende uno straccio; è la dipendenza dall’alcool che ti fa terra bruciata di saggezza e sentimenti. Può essere la stessa detenzione per delitti commessi e giustamente puniti. Ed è una grande gioia quando ritorna la salute, esci dall’ospedale, si schiudono le porte del carcere, smetti di drogarti e di bere. È un’altra vita. Il carcerato non vede più il sole a scacchi, non sta più a misurare il perimetro della cella, non divide più il tempo in ore di aria o di cella. È bello non sentirsi più dipendente da sostanze, uscire dall’incubo dell’alcoolismo.
È stato così anche per il popolo di Israele. Era stato per tanti anni schiavo dell’Egitto e finalmente dopo molteplici tentativi, dopo lotte serrate contro il faraone Mosè riesce a far passare il mar Rosso. È bellissimo il canto di Maria, la sorella di Mosè, oltre il mare che si chiude alle spalle sui cariaggi del faraone. Inebriati di una liberazione definitiva. Contenti di una rottura delle catene.
Così capitò in Italia nel 1945 quando finì la guerra e i tedeschi se ne andarono da tutta l’Italia. Liberazione: non c’era più nessun oppressore che ci faceva paura con le sue armi, con le sue ritorsioni, i suoi soprusi. Liberati finalmente, senza padroni, senza schiavitù, senza dipendenza da altri. Ma per vivere veramente da liberi abbiamo dovuto cambiare dentro, saper far fiorire oltre alla giustizia il perdono, un nuovo modo di rapportarci tra noi e con Dio. Vivere questa dimensione del perdono non è stata solo una liberazione, pure necessaria, ma come un nuovo principio vitale.
Quando diamo e chiediamo perdono, non solo veniamo liberati, ma viviamo da liberi proprio per la presenza dello Spirito. Non c’è più spazio per la morte, perché lo Spirito la sorpassa. Dobbiamo pure morire, ma la morte è solo una conseguenza di un peccato, non la realtà definitiva in cui siamo collocati. Lo Spirito la bypassa e ci traghetta di là sempre.
Non siamo stati lasciati soli, Gesù non solo ci ha aperto gli occhi, ma ci ha mandato la luce senza della quale i nostri occhi non avrebbero potuto vedere. Non solo ci ha dato la vita, ma anche l’aria per respirare. Non solo ci ha rotto le catene degli inferi, ma ci ha fatto diventare abitazione dello Spirito. Questa compagnia e presenza dolcissima dello Spirito è la continuazione della presenza di Lui tutti i giorni della nostra vita, fino al suo ritorno.
La liberazione è un atto, la libertà è una condizione, una vita, una continuità di sentimenti, di decisioni, di responsabilità. È la vera pace, senza ritorsioni e rimorsi, senza odio, e non solo dimenticanza, ma nuovi rapporti di amicizia, di collaborazione e di pace interiore
16 Maggio
+Domenico