Fuga, emigrazione, violenza

Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 2,22-40)

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret.
Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Audio della riflessione

La nascita è stata una gioia per tutti, la fine di una attesa misurata, talvolta preoccupata ma sempre piena di speranza; i dolori del parto da dimenticare, ma ora lui o lei c’è. È già stato tutto preparato, il lettino, la cameretta, i vestitini, tutti si sono concentrati su questa nuova creatura, voluta, desiderata, progettata. Fossero tutte così le nascite dei figli, fossero tutti così i genitori che esprimono il massimo del loro amore nel farlo diventare nuova vita. Sappiamo purtroppo che spesso non è così, che per molti la vita nuova è un incidente o un sopruso o un intruso.  

Ma per questa povera, debole creatura l’amore di una mamma non deve mancare, il dono di una famiglia è un bene da conservare e su cui piegare ogni sana comunità umana, ogni civiltà, ogni stato, ogni globalizzazione. Ogni bambino che nasce a questo mondo deve avere il bene assolutamente gratuito che abbiamo avuto noi: un papà e una mamma, un nido d’amore accogliente. 

 Nelle migliaia di campi profughi non c’è cameretta, né vestitini, ma spesso solo paura del futuro e fame e guerra sempre all’orizzonte. Abbiamo visto tante fotografie delle guerre in Africa, in Medio Oriente: quanti bambini, sono vittime di una guerra, come tutte senza senso, quanti volti di genitori disperati, quanti corpi feriti e i bambini, grazie a Dio sono ancora capaci di sorridere. 

Anche se il nido preparato è fragile e subito o troppo presto si rompe. Il presepio dura poco, la vita di famiglia entra in crisi, le difficoltà aumentano e come se non bastassero le tensioni quotidiane ci si mettono anche le condizioni sociali incapaci di costruirsi a misura di famiglia.  

Anche Giuseppe e Maria hanno dovuto fare i conti con le avversità, la fuga, l’emigrazione, la violenza. C’è però ancor un quadro che il Vangelo ci fa contemplare e che chiude il tempo natalizio. Giuseppe e Maria vanno al tempio, vanno in Chiesa diremmo noi, e presentano a Dio questo dono sorprendente che hanno gelosamente da custodire. Lì c’è un vegliardo Simeone e una donna anziana, Anna.  

A me fanno tanto pensare ai nonni, a quella stagione della vita in cui ti sembra che tutto sia passato, che il declino abbia il sopravvento e invece la nascita del nipotino ritorna a farti vivere, a darti speranza: “i miei occhi hanno visto la salvezza”, la vita continua, occorre tornare con entusiasmo a servirla, senza potere,  senza rabbia, con la consapevolezza del limite e della pace.  

E questi due nonni sono là a ricordarti, a ricordare a Maria e Giuseppe che la vita sarà sempre in salita, “una spada trafiggerà la vostra anima”; non sono uccelli del malaugurio, ma la forza nella prova immancabile. Te li ricorderai sempre perché ti hanno aiutato a vivere. 

E Maria e Giuseppe contemplano stupiti questo Gesù, che pur essendo Dio, impara a vivere da uomo, a camminare e a crescere in una famiglia. Credevano di essere soli con la loro fragile creatura, ancora frastornati di quello che stava capitando attorno a questo bel bambino; invece continuavano a poter dire il loro sì a Dio che li aveva chiamati a dare il loro contributo al suo grande sogno, grande progetto: il cambiamento in bontà della cattiveria umana.  

In questo non si sono mai sentiti e mai lasciati soli. Sarà Gesù a compiere con la sua vita, la sua croce tutto questo grande progetto di Dio. E noi oggi ne facciamo memoria e decidiamo di non lasciare solo Gesù.

31 Dicembre
+Domenico

La profetessa Anna, vecchia, ma non di spirito

Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 2,36-40)

[Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.] C’era una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret.
Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Audio della riflessione

Capita a tutti di incrociare in luoghi di grande afflusso di persone, mercati, piazze, santuari, cattedrali, delle nonnine rattrappite, con a seguito borse, pacchi, stracci e carrelli dove si tengono tutto il necessario e il superfluo che fa la loro vita. Le vedi vagare, parlare tra sé, ogni tanto imprecare contro cose o persone e alla fine acquietarsi, senza badare a niente e a nessuno, nemmeno a chiedere qualche spicciolo per vivere. Doveva fare questa impressione la vecchia profetessa Anna di cui parla il vangelo di Luca. Era proprio vecchia: ottantaquattro anni di allora sono come più di 100 nel terzo millennio. La sua età però non ha spento l’attesa. La vera vecchiaia è non aspettare più niente, vivere ogni giorno senza speranza, credere che tutto sia deciso e che inesorabilmente venga avviato verso un fantomatico destino su un nastro trasportatore. Puoi essere vecchio anche da giovane, quando ti assale la noia, quando stai ai bordi dell’esistenza a fumarti la vita, la salute e le energie, quando ti affidi alle sostanze perché non senti più il sapore dell’esistenza, quando senza accorgerti cominci a dire ormai o, peggio ancora, “ai miei tempi”.  

Anna invece non s’allontanava mai dal tempio. Non era una chiesa qualunque, un luogo di funzioni religiose, era il cuore di un popolo, era il punto di arrivo di ogni attesa, aspirazione, provocazione e ricerca. Se il Signore, benedetto sia il suo nome, manda il salvatore è da qui che deve passare, è da questo luogo di preghiera, è da questa rete di scambi, di aspettative che si consumano ogni giorno.  

Lei aveva in cuore una certezza: Dio avrebbe risposto a questa sete di salvezza e bisognava prepararsi, allenare il cuore a percepire la venuta del Salvatore. Lui non lo si aspetta nei bagordi, nelle piazze, nelle caserme, nei palazzi dei re: Lui è re, ma si lascia accogliere nei cuori puliti, e digiunava, non dava al corpo tutto il cibo di cui sentiva il bisogno per tenere il cuore desto. A noi invece hanno sempre insegnato che se senti un istinto, devi seguirlo. Che c’è di male nel mangiare e nel bere? Perché devo andare contro la natura se questa è stata così ben fatta da Dio? Lei invece coglieva che il corpo si intorpidisce se non lo tieni allenato alla ricerca; lei sapeva ciò che ogni sportivo conosce, che se hai una meta davanti devi prepararti tutto: cuore, spirito e corpo a perseguirla. Non sei un masochista, ma un atleta che fa convergere tutto alla competizione, allo scopo della sua attesa. Se accontenti sempre il corpo, l’anima s’addormenta, se hai il coraggio di tenerlo in tensione la vita si arricchisce, la vista si pulisce e il cuore si allarga. 

Quando Anna vede il bambino non le par vero di poter dire a tutti. Tanto lo aveva immaginato che la vita, il futuro di questo bambino le era davanti agli occhi come una certezza. Questo bambino che abbiamo atteso a lungo, che io nella mia lunga vita ho sempre pensato e immaginato, che nelle mie preghiere mi era dato di sentire, che i nostri avi hanno da sempre previsto, che molti si sono stancati di aspettare, è qui. La vita ora è diversa. Sono vecchia da buttare, ma sono contenta di aver dato a voi questo segnale di speranza. Ora lo affido a voi, non me lo trattate male, perché chi vi ha preceduto lo ha aspettato per millenni. Lui è il punto di arrivo del nostro popolo, non aspettate altri. Non fu così: la malvagità umana anche oggi lo continua a inchiodare in croce, ma Anna lo gode risorto e definitivo con i suoi padri. 

30 Dicembre
+Domenico

Il vecchio Simeone, una sentinella anche a ottant’anni

Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 2,22-35)

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

Audio della riflessione

È bello essere giovani, avere un’età che ti permette di essere al massimo della salute, al massimo della voglia di vivere, al massimo dei sogni. Scoprire sempre qualcosa di nuovo dentro di te e nel mondo, non avere ricordi che ti pesano, tendere la vita come un arco verso il futuro. E un vecchio? È da buttare? Non ha più niente per cui vivere? Aspetta solo la morte?

C’era un vecchio un giorno nel grande Tempio di Gerusalemme. Si aggirava tra i candelabri, conosceva tutti gli orari delle preghiere, teneva dietro a tutti i cortei della gente che portava offerte. Soprattutto da un po’ lo incuriosiva quella piccola processione di genitori che portavano davanti all’Altissimo il loro primogenito. Vedere un bambino, un nuovo ebreo gli ridava fiducia. Il Signore continua a benedire il suo popolo. Ma lui aspettava qualcuno; gliene dava sentore il sangue, glielo aveva fatto capire la vita, la sua saggezza; gliene davano sentore i tempi in cui viveva: il popolo senza capo, senza gloria, adattato al ribasso. Non può più tardare chi darà una svolta a questo popolo seduto e ingessato. Dio l’onnipotente non può averci dimenticato. Leggeva con attenzione i segni della vita, posava l’orecchio sulla terra e ne intuiva i dolori del parto.

Un sussurro gli era arrivato da Betlemme. E lo Spirito gliene aveva dato la certezza: non sarebbe morto prima di vedere il messia. E ogni giorno come una sentinella che annuncia l’aurora la sua vita era tesa come l’arco da cui scocca una freccia. A qualcuno avrà certo fatto compassione. Eccolo qui il vecchio pazzo che aspetta ancora il messia. Non s’accorge che i Romani ci hanno tolto tutto, non capisce che Erode vede nemici dappertutto e fa trucidare anche i suoi figli pur di stare a galla. Non importa più niente a nessuno di noi. Siamo stati abbandonati. Se Dio una volta c’è stato ora non c’è più. Si è stancato pure Lui di questa Palestina. È una storia che si ripete sempre. La sentinella è beffata, chi sogna il futuro è ritenuto illuso, prevalgono le speranze spente dell’adattamento e le consolazioni del sentirci tutti nella fogna. Invece di puntellare chi potrebbe uscire dalla fossa, chi ha la vista più lunga lo si scoraggia e deprime. La stagione del tenere i piedi per terra non finisce mai, la speranza è al massimo una previsione. Ma lui il vecchio Simeone ogni giorno anche zoppicando va all’appuntamento con la speranza. Qualcuno che apprezza le sentinelle c’è sempre.

In quel tempio, davanti a quel vecchio molti si facevano domande, ricordavano le cose imparate in sinagoga, ripensavano alle profezie, rinasceva nel loro cuore la speranza. Era un piccolo resto, ma chi ha detto che le cose belle della vita sono solo quelle che hanno uno share televisivo alto? E finalmente l’attesa si compie; è un batuffolo di carne, un bambino, per di più povero; la processione che lo accompagna è misera: la mamma e il papà, due giovani di campagna, con due piccioni e lui, il re l’onnipotente con loro.

Simeone ha la vista lunga: vede la salvezza, vede la luce che illumina le genti, vede la gloria del popolo d’Israele. Vede un seme, ma gli si staglia davanti già la pianta. Intuisce anche la pianta del dolore perché a sua mamma non fa troppi complimenti. Dolore e fatica saranno compagnia del messia, ma la salvezza è qui. Ora posso morire in pace. Tu Signore sii benedetto perché l’attesa è giunta a compimento. Avessimo tutti nella vita un vecchio che ci tiene aperta la speranza, che non smette di alzarci lo sguardo troppo ripiegato sul presente! 

29 Dicembre
+Domenico

Purtroppo, continua sempre la strage degli innocenti

Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 2,13-18)

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».
Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».
Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi.
Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremìa:
«Un grido è stato udito in Rama,
un pianto e un lamento grande:
Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata,
perché non sono più».

Audio della riflessione

Innocenti sono i bambini che non fanno del male a nessuno, indifesi, bisognosi di tutto e di tutti. Ti si affidano ingenuamente, ti fanno sorrisi che conquistano anche i cuori più duri, ti parlano col pianto che devi interpretare, ti si attaccano al petto per poter vivere, ti succhiano col latte la vita, il tempo, il cuore. Ma sono deboli, mai come oggi devono sopportare gli attacchi degli adulti. Li ammazziamo ancora prima di nascere, perché sono scomodi, perché li abbiamo fatti venire al mondo senza pensarci, perché servono a pezzi, a cellule, a organi.  

A Betlemme nell’anno della nascita di Gesù, all’anagrafe sono andati tanti altri papà e mamme, la vita continuava a esplodere, il mondo di quella sperduta provincia romana si perpetuava nelle nuove generazioni, ma Erode non voleva farsi soppiantare. Il suo trono traballava e la colpa era di questo piccolo, innocente bambino, nato in una grotta, ma occorreva ucciderli tutti perché nessuno scampasse a insidiare il suo futuro.  

La storia oggi si ripete, nelle guerre tra etnie non solo di distruggono case e beni, ma anche vite innocenti, per estirpare un popolo. Come avviene delle nostre società occidentali; le chiamano interruzioni di gravidanza, ma sono la lenta inesorabile decadenza di un popolo. È la strage degli innocenti che si perpetua di nuovo. Gesù si è affidato nella sua potenza alla debolezza dell’amore di un uomo e di una donna. San Giuseppe entra in scena con grande dignità, coraggio e decisione. Chi ama la vita sa sempre leggerne i percorsi e le risorse. Fugge, prende una carretta del mare di sabbia che è il deserto e porta in salvo il figlio di Dio; già il suo popolo aveva fatto questa scelta per sopravvivere a carestie, guerre e fame.  

Durante la pandemia ci siamo pure permessi di dare indicazioni perché ogni donna si arrangi a farsi il suo aborto con due pastiglie, a casa sua, anche dopo due mesi dal concepimento, dopo tante battaglie per toglierlo dalle mammane che l’aborto lo facevano già in casa. 

Oggi il figlio di Dio è una icona delle storie di tutti i popoli che devono fuggire per vivere, di tutti i bambini indifesi e innocenti che non possono difendersi dagli adulti ingordi e dissennati. E’ l’immagine dei bambini di strada, dei bambini che non vengono fatti nascere, dei bambini che vengono usati come cavie, degli innocenti che vengono sfruttati commercialmente per saziare le voglie innominabili di tanti adulti, dei figli non amati e violentati in casa, dei bambini vittime della tratta dei migranti e del lasciarli morire in mare per difendere i nostri confini italiani ed europei, per non dire delle crescenti condanne che ci vengono dalle istituzioni internazionali, non dalle politiche di altri paesi Europa compresa per il non rispetto dei diritti dei minori. Occorre in ogni luogo un san Giuseppe che protegge, aiuta, porta con sé, difende, sostiene. Lo possiamo essere ciascuno di noi. Dio lo è per tutti, perché non ci abbandona mai. 

28 Dicembre
+Domenico

Giovanni, si firma folgorato dalla Risurrezione 

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,1-9)

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario –  che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.

Audio della riflessione

Ci raccontavano i nostri papà e i nostri nonni l’emozione intensa quando   scoppia una notizia spesso desiderata, ma mai ammessa come possibile, capace di cambiare la vita di porre fine a tanti pericoli, paure e ansie. Era stata per esempio vissuta così la notizia della fine della II guerra mondiale: gli orecchi incollati alle radio, tesi nell’intercettare ogni segnale nuovo, gli occhi aperti sulla realtà per non farsi ingannare. I tedeschi non ci sono più. La guerra è finita, non dobbiamo più oscurare le nostre piccole luci, né temere di essere presi a caso per qualche vendetta, siamo liberi. Prima che scoppiasse la gioia c’era quell’atmosfera di attesa, di dubbio, di coraggio nell’esporsi, di cuore in ansia che scoppia.  

Erano così Pietro e Giovanni, il vecchio e il giovane. Avevano intercettato “radio scarpa” diremmo noi, le voci dei vicoli di Gerusalemme: hai sentito? non hanno più trovato il cadavere di Gesù. È un tam-tam tra le stradine strette, tra i giri di scale, tra le donne che stanno a fare un grande bucato come dopo ogni festa; la voce scende la collina, passa nel suk. In questo giorno in cui comincia la vita, in cui tutti sono pieni di sonno, ma anche di decisione di ricominciare pur con qualche fatica di più, devono fare i conti con una notizia nuova. La gente ne avrà da parlare per settimane. Qualcuno scuote la testa, le solite pazzie, le solite donne… e si avvia al suo lavoro quotidiano. 

Non così invece Pietro e Giovanni che col cuore in gola vogliono vedere con i loro occhi. Nella corsa gli si rivolta la coscienza, vengono in mente le parole finora incomprensibili di Gesù. Risorgerò, dopo tre giorni risorgerò. Lo capisci Pietro? Oppure non riesci a immaginare nient’latro che questa vita? Giovanni sei convinto che il dolore non sarà l’ultima parola, ma l’inizio della gioia di una vita piena? Tu che sei giovane non cogli in questa risurrezione la risposta più piena alla tua voglia di vivere? 

 Ne aveva speso di tempo Gesù per convincerli. Li aveva preparati a questo salto di qualità, ma non è facile, come non lo è per nessuno di noi credere nell’impossibile. Ma per Dio tutto è possibile. A Gerusalemme avevano parlato i fatti. La speranza ha vinto. Non è un fantasma, una sorta di presenza da x-file. Non è la forza del ricordo. Non è un morto ritornato in vita. Lazzaro ci ha sorpreso, ma ha spostato solo la data della sua morte. 

Gesù c’è ed è in vita, una vita nuova piena, inedita: quella di prima tutta in carne pelle ossa, corpo e sentimenti, sguardi e affetti, ma radicalmente nuova, inserita in una esplosiva novità. È un modello nuovo di vivente, l’apice cui doveva giungere la vita, da quando Dio l’aveva creata. Ed è vita definitiva per tutti noi. 

Non c’era brano di vangelo migliore per celebrare la festa di san Giovanni Evangelista, non c’era altra sua firma forte, intensa, definitiva come queste due ultime parole: vide e credette, che dice e scrive di sé stesso.  

27 Dicembre
+Domenico

Vivere e morire da cristiani

Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 10,16-23)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.
Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.
Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato.
Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra; in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo».

Audio della riflessione

La figura di Santo Stefano oggi ci permette di ritrovare la forza della nostra fede e motivi profondi, veri, rinnovati per vivere da cristiani. C’è una differenza tra la vita e la morte di un cristiano e la vita e la morte di un non credente? Un vecchio testo dei primi secoli della chiesa dice: “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio né per lingua o abiti. Essi non abitano in città proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano… Abitano nelle città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l’abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, mostrano il carattere mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita… Abitano nella propria patria, ma come stranieri… Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera… Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi…”. 

Abbiamo allora un nostro sistema di vita. È quello che ha incarnato Santo Stefano. Era in atto durante la sua breve vita un grande cambiamento nella sua società. Si stava facendo chiaro nella coscienza di tutti che bisognava cambiare modo di credere in Dio e modo di viverne la legge. Non era più il tempio dove si sacrificavano animali il centro della fede, ma la dolcissima figura di Gesù, il suo modo di vivere, i suoi insegnamenti. E Stefano si decide per questa scelta e fa di tutto per trascinarvi la gente, gli amici, il popolo. Vi si mette al servizio. Un servizio per la vita quotidiana, ma soprattutto un servizio per la vita piena, eterna, fatta di fede in Gesù di Nazareth. 

È una scelta che destabilizza le sicurezze a buon mercato del: “abbiamo sempre fatto così”; mette in campo sentimenti di bontà che sembrano codardia: se uno ti percuote su una guancia, porgi l’altra. È troppo facile perdonarsi tra amici che fanno uno sgarbo, occorre perdonare i nemici… Insomma, un nuovo stile di vita. Il vostro tesoro è nei cieli. Chi ama la propria vita la perde. Chi vuol venire dietro a me prenda ogni giorno la sua croce e mi segua… 

E Stefano si pone in questa nuova mentalità. L’averlo scelto come primo santo dopo il Natale significa che la Chiesa, i fedeli i nostri avi, hanno visto in questo santo una indicazione di vita, una freccia che indica come costruire i nostri stili di vita. Noi vogliamo essere gente decisa per la fede come lo è stato S. Stefano, gente che è capace di pagare con la vita ciò in cui crede, gente che sa perdonare le offese, gente che crede fermamente nella vita futura, nella risurrezione, gente che vede i cieli aperti, e che ha coraggio di professare la sua fede. 

Noi siamo convinti che c’è una vita futura, che Dio ci attende nel suo amore, che la nostra vita non va verso il niente, ma verso la pienezza, la morte non è l’ultima parola sui nostri affetti e sui nostri sogni, sui nostri dolori e sulle nostre fatiche; siamo convinti che c’è un cielo, un paradiso, un giudizio sulla nostra vita. Non siamo buttati a caso in questo mondo, ma siamo oggetti di un grande amore. 

Questo noi ci vogliamo dire anche oggi e questo vogliamo ottenere pregando da Santo Stefano. Certo i tempi sono difficili. I nostri figli non ci seguono più, il mondo è imbarbarito, chi vive da cristiano è disprezzato, i nostri ragazzi hanno vergogna ad andare in chiesa… Che adulti hanno alle spalle? Siamo gente che dice, ma che non crede o gente che sa pregare e affidarsi all’amore di Dio? Crediamo di essere autosufficienti nella vita o abbiamo fiducia di stare a cuore a un Dio che ci accoglie sempre nelle sue braccia? Sappiamo mettere davanti a tutto la coscienza retta o i risultati a qualsiasi costo? 

Questi nostri figli vedono dei genitori che credono o adulti stanchi che fanno della religione una vecchia abitudine? Ai genitori costa essere cristiani sempre e dovunque o comanda la legge del mercato, prendo quello che mi serve? 

La festa di Santo Stefano deve assolutamente richiamarci le nostre radici, deve aiutarci ad andare in profondità nella nostra coscienza per rigenerare la nostra fede. Certo per fare questo occorre tornare a Dio, occorre tornare a scuola della sua parola, occorre prendere in mano il vangelo e farlo diventare scuola di vita, occorre che ogni laico, ogni papà e mamma non aspetti solo dal prete qualche raro invito ad andare in chiesa.  

È finita la religione che consiste solo nell’andare in chiesa, quando suona la campana. Ogni cristiano è chiamato a vivere nel mondo la sua fede e deve aiutarsi con gli altri cristiani a vivere e approfondire le ragioni del suo credere.  

Non siamo in tempo di persecuzioni come paventa il vangelo per i primi cristiani e come lo è poi stato, ma siamo in una persecuzione più strisciante, fatta coi guanti bianchi, ma che ottiene lo stesso effetto, ci toglie dal cuore la fede.  

Santo Stefano ci dia la forza di un colpo di reni, di una impennata di grinta per noi e per le generazioni future. 

26 Dicembre
+Domenico

Il verbo si è fatto carne

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 1,1-18)

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
“Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me”.
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

Audio della riflessione

Stiamo celebrando una festa molto legata ai nostri ricordi, molto piena di sentimenti, carica di relazioni che vogliamo sempre mantenere, che ci rimettono in circolo con serenità nel nostro piccolo o grande mondo. I social network ci hanno messo in contatto con amici, collaboratori, parenti. I messaggi imperversano nei nostri cellulari, WhatsApp ci regala immagini, fotografie, dialoghi. Insomma, molti di noi sperimentano di sentirci di qualcuno, di far parte di un tessuto di relazioni vitali. 

 Ebbene questo tessuto c’è perché oggi vi colloca dentro la sua tenda proprio Gesù. Il verbo si è fatto carne e venne ad abitare, a porre la sua tenda, in mezzo a noi; proprio non solo nelle nostre vite personali, ma nel nostro mondo di relazioni, di sofferenze e di gioie, di egoismi e di generosità.  

 Qui oggi facciamo memoria del giorno concreto, datato, inscritto nei nostri calcoli astronomici, in cui Dio si è fatto uomo, in cui la Parola si è fatta carne, in cui tutte le nostre domande, i nostri perché, le nostre ricerche di senso si vedono offrire una proposta concreta, non una semplice risposta, come lo può essere un tappo sulla nostra vita che ci spegne ogni domanda. Cercare, domandarsi, di tendere alla verità deve segnare sempre le nostre vite. Smettiamo di essere persone quando non ci facciamo più domande. Il verbo si è fatto carne, la parola verbo non è quella che ci faceva paura già alle scuole elementari quando ci chiedevano di coniugare i verbi. Qui ha il significato di senso. Il senso della nostra vita, la proposta ai nostri perché è Lui, è Gesù. Non è un ragionamento più raffinato, non è una idea di qualche libro, il senso che cerchiamo è Gesù, la sua vita, il suo essere vangelo, buona notizia, novità definitiva per ogni essere umano. È la Parola di Dio definitiva all’umanità 

Non facciamo fatica poi a capire perché molti lo hanno ignorato, i suoi lo hanno crocifisso, perché da molti è stato ed è ancora rifiutato. Noi cerchiamo il senso della vita, ma molti non lo cercano, lo costruiscono comodo, pensano di trovarselo in sé stessi, nella propria solitudine, nella propria autorealizzazione, nelle sostanze che lo stordiscono fuori da tutte le possibili relazioni. Lo confondono con il danaro, il potere, il sopruso, la vendetta. Quanti uomini, e tante volte anche noi, mettiamo il senso della nostra vita nelle cose, nella nostra autosufficienza, nel nostro accumulare, nel nostro apparire, nell’effimero, nel crearci nemici, nell’approfittare, nel male. 

 Rifiutiamo Lui, lo mettiamo di nuovo in croce, non abbiamo posto per lui come non ce l’avevano a Betlemme. Non facciamo posto a nessun altro; sfruttiamo il mondo solo per i nostri interessi. Da qui nasce il nostro star male, diciamo la parola precisa: il nostro peccato. Ecco perché abbiamo bisogno di misericordia, di perdono, di ricominciare sempre a giocare la partita della nostra vita. E nello stesso tempo abbiamo bisogno di perdonare gli altri. Anzi la chiave della misericordia Gesù ce l’ha messa nelle mani nostre se accogliamo chi ci ha offeso. Tante nostre situazioni di vita si risolvono solo proprio nel perdono, nel sentircelo donato e nel donarlo. 

Contempliamo oggi in quel bambino il senso della nostra vita, il significato del nostro stare con gli altri, vediamo in quel volto bambino, in quel corpo indifeso chi bussa alle porte della nostra Europa; sentiamo le urla di sconforto delle mamme e dei padri che si vedono i figli ributtati sulla risacca del mare in cui sono annegati.  

Il Natale è sempre la misericordia di Dio per tutti. Se ci confessiamo e comunichiamo in questo periodo natalizio, oggi usciamo da questa nostra bella chiesa rinnovati, purificati, senza i nostri ricorrenti rimorsi, ma con nel cuore un seme di bontà che dà sicuramente frutti. 

 Diceva papa Francesco che è stato più facile a Mosè togliere il popolo di Israele dall’Egitto, che togliere l’Egitto dal cuore degli ebrei. È più facile che Dio ci liberi dal peccato che il peccato si senta rifiutato da noi, perché la nostra fragilità la riteniamo più grande spesso della sua bontà. E Lui con ogni Natale ci fa dono della misericordia, della sua tenerezza, che va diritta alla nostra coscienza e ci dà libertà dal male, e abbraccio di bontà, decisiva e sicura. 

25 Dicembre – S.Messa del giorno di Natale
+Domenico

Siamo testardi: non ci toccate il presepio!

Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 2,1-14)

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.
Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Audio della riflessione

Tanto è piena di tensioni, di apprensioni, talora di paure l’attesa di un bimbo, tanto, e molto di più, è piena di gioia la sua nascita. Anche Maria ha provato questa decisiva esperienza della maternità e ora l’attenzione va sul bambino. Dopo i primi complimenti alla mamma l’attenzione va su di Lui. Partorì, lo fasciò, lo sdraiò. E Lui, ora c’è, si fa sentire, si presenta, attira l’attenzione, si crea il suo spazio. Ha sempre bisogno dell’amore di tutti, dei suoi genitori soprattutto, ma ora è una nuova vita. E Gesù è la nuova vita per noi. Il vangelo di Giovanni userà parole più severe: il verbo si è fatto carne, ma tutti gli evangelisti dicono e tentano di farci capire la grandezza di quello che una scena così umana ci permette di contemplare.  

A noi oggi non basta lasciarci commuovere da un bambino che nasce; ci serve anche la commozione, ma la nostra fede vuole che andiamo oltre, che vediamo in trasparenza la nostra storia, la storia dell’uomo, la storia del mondo. Non siamo soli. Dio è con Noi. Questo bambino è il figlio di Dio, è la pienezza cui aspira da sempre la nostra vita. È una speranza nuova, è il seme di una umanità che si può riscattare, è il principio e la fine, è il Signore dei signori, è il creatore. 

 Potremmo sembrare pazzi, ingenui a caricare una scena così idilliaca di questi numerosi significati; infatti, la cultura occidentale si sta stancando del Natale, della grotta, del bambinello, preferisce non fare menzione di nessuna nascita, le basta un albero, un vecchio vestito di rosso; presepio è parola ormai non politicamente corretta.  

Intanto storicamente è assodato da tutti che Gesù Cristo è nato vissuto e morto ingiustamente, senza aver fatto se non del bene a tutti, la nostra cultura è legata a lui e noi come cittadini ne possiamo ricordare la persona e l’importanza nella nostra cultura. E noi cristiani inoltre siamo testardi, non ci interessa niente delle mode, non ci dispiace scandalizzare, passare per ritardati, vogliamo guardare a quel bambino, e vedervi il sorriso di Dio, leggergli sulle labbra le parole dell’amore di Dio. Noi credenti in questo bambino adoriamo il nostro creatore, sappiamo di stare a cuore a Dio, sappiamo che la nostra storia, non è una accozzaglia di avvenimenti, ma è un tessuto di relazioni d’amore.  

E non siamo senza ragione, perché la vera ragione si è fatta carne, contro tutte le semplificazioni della ragione umana che non riesce più a parlare di Dio, dell’eternità, della morte, perché parla solo di quello che vede e tocca. Ma quello che è più importante nella vita degli uomini è sempre invisibile agli occhi.  

E l’invisibile s’è fatto uno di noi, perché Dio non ci abbandona mai. 

25 Dicembre – S.Messa della notte di Natale
+Domenico

Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».

Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 1,26-38)

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.
Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Audio della riflessione

Il nostro modo di pensare di gente concreta, fatto di sogni e di progetti, ma soprattutto di realizzazioni concrete, di laboriosità contrasta un poco con il mondo della fede. Non è che chi crede debba essere un fatalista, uno che sta con le mani in mano a vedere se la vita cambia da sola, a starsene beatamente nell’inerzia più assoluta, ma sicuramente chi crede in Dio deve sicuramente mettere Dio al centro della sua esistenza e lasciarsi condurre da lui, dalla sua parola, lasciarsi convertire al suo piano e entrare nell’idea che è Dio che ha in mano le sorti del mondo e della vita e che noi spesso siamo solo di ostacolo, perché agiamo di testa nostra. Il male che c’è nel mondo è frutto di una nostra soggettività giocata male, del nostro esserci messi al posto di Lui.  

Non così, ma esattamente il contrario è stata la decisione di Maria di mettersi nelle mani di Dio. Quando l’angelo andò da lei per chiederle a nome di Dio se volesse diventare la madre di Gesù, ella si offrì completamente. Aveva progettato nella sua vita di essere vergine e a Dio si offre così. La sua verginità indica che ciò che nasce da lei è puro dono, il futuro che inizia con lei è grazia e dono di Dio. Nelle coppie sterili dell’Antico Testamento Dio dà successo a una azione umana senza successo, qui invece Maria rinuncia ad agire, offre la sua verginità, una passività e una povertà totale che rinuncia ad agire proprio per lasciare il posto a Dio. È la fede. Questo vuoto assoluto è l’unica capacità in grado di contenere l’Assoluto. 

E Maria diventa la figura del credente, l’immagine della Chiesa, di chi nella fede concepisce l’inconcepibile: Dio stesso. Le domande che Maria fa sono nella direzione non di una volontà di agire e ancor meno di opporsi, ma nella direzione di una disponibilità massima di corpo e di spirito, di pensieri e di progetti. 

Maria realizza il mistero della fede. Quando siamo proprio decisi a lasciarci fare da Dio, a mettere in animo il suo disegno, il suo modo di vedere la realtà, Dio si fa presente. È la fede pura che attira in noi il Salvatore. La fede rompe i limiti di ogni incapacità umana per renderci capaci di Dio. 

E Dio quando coglie la nostra disponibilità decide di stare con noi di diventare l’Emmanuele, il Dio che non ci abbandona mai. 

24 Dicembre
+Domenico

Ma che vuole Dio da noi?

Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 1,57-66)

In quei giorni, per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome».
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.

Audio della riflessione

Quando vivi degli avvenimenti intensi sembra che il tempo si fermi, l’attesa si fa spasmodica, conti i giorni, le ore, i minuti, poi ti guardi un attimo indietro e vedi che il tempo è passato, che gli avvenimenti procedono con una certa inesorabilità; la vita che è iniziata si radica, continua, ha i suoi ritmi che paiono lenti, ma che procedono inesorabili. E così avvenne anche per Elisabetta: la sorpresa, la vergogna di vedersi incinta alla sua età, la consolazione di avere Maria a farle compagnia, il grande evento che in Lei si sta compiendo…  

Tutto continua e nessuno più ferma la nuova storia e viene il giorno in cui questo Giovanni nasce; le meraviglie, le incredulità, la sorpresa che pure ciascuno viveva nella sua interiorità prendono fuoco, perché ora Giovanni è lì, il suo pianto è vero, il suo corpo se lo coccola sua madre, se lo mangiano con gli occhi tutti. Zaccaria è muto, è un padre ancora senza parole, gli ripassa nella mente tutta la sequenza del Tempio, della promessa, tutte le attenzioni di questi nove mesi. Elisabetta si fa aiutare, Maria dopo tre mesi ritorna a casa sua. Ora la storia di Dio continua in Lei, anch’essa ha bisogno di rientrare nella sua intimità a custodire il futuro dell’umanità.  

Il bambino di Elisabetta è nato e arriva anche il giorno della Legge, il giorno della circoncisione. Questo figlio fa parte di un popolo, non nasce in un deserto di relazioni e di storia, è dentro un nobile casato sia per parte di Zaccaria che di Elisabetta. Di nomi da ereditare ce n’è tanti e tutti nobili, tutti capaci di rievocare gesta, ruoli elevati, funzioni eminenti. A cominciare dai capostipiti Abia, per Zaccaria e Aronne per Elisabetta. Ma il bambino è destinato a far scoppiare il futuro, non a clonare il passato.  

“Chiedevano con cenni a suo padre” … i muti ora sono tutti, come si fa di solito con chi non parla, con chi deve esprimersi a cenni. Pensano forse che Zaccaria sia sordo e lo seppelliscono nell’isolamento, lo privano di qualsiasi normalità. Zaccaria esprime ancora per l’ultima volta la sua tensione di non essere capace di dire e scrive: Giovanni sarà il suo nome. Lui deve annunciare la novità assoluta, definitiva per l’umanità, non sarà cultore del tempio, non si metterà in fila come tutti a ripetere un passato anche glorioso, non farà come suo padre i turni settimanali dell’offerta dell’incenso, intuirà invece e indicherà con forza la venuta del Salvatore, brucerà di ardore per l’attesa del compimento. 

Zaccaria torna a parlare e la gente, noi, a riflettere a domandarci: ma Dio che vuole da noi? Che vuole da noi Lui che non ci abbandona mai? 

23 Dicembre
+Domenico