Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 8, 19-21)
In quel tempo, andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
Audio della riflessione.
La famiglia oggi è molto penalizzata, se non disprezzata, ma la tendenza è quella di continuare a crearne imitazioni. C’è qualcosa di impareggiabile nel rapporto parentale tra più persone, di sesso diverso e di età diverse, caratteristiche anche molto distanti, ma con un sentimento e un cumulo di emozioni che cementano le relazioni, le rendono belle, e spesso risolutive di situazioni difficili per alcuni membri, per alcuni periodi (cfr crisi economica, malattie, disgrazie) per molteplici esigenze che insorgono senza averle progettate o previste.
Anche Gesù aveva una famiglia, anche se molto originale; abitava a Nazaret, vi ci è vissuto per non pochi anni, ne ha avuto una ottima educazione. Ad età matura lascia la famiglia perché nessuno lo ferma nel suo progetto di vita e nella sua missione. Deve annunciare il Regno di Dio e non può non mettere tutto al suo servizio.
Un giorno però è la famiglia che cerca Gesù. Cafarnao non era troppo distante da Nazaret e di Gesù si sentiva parlare fin troppo, creando di lui una fotografia di persona non troppo calma e forse anche un po’ fuori di testa (è l’evangelista Marco che lo dice). E’ una visita di soccorso, di ricupero, di protezione amorevole; non è che lo vogliono soprattutto vedere, ma portare a casa. Avevano paura perché si esponeva troppo a parlare al popolo creando preoccupazioni per l’occupante romano che temeva sempre sedizioni.
“Tua madre ed i tuoi fratelli sono fuori e desiderano vederti”. La reazione di Gesù è chiara e Marco ancora più concreto: Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre. La cosa bella è che Gesù allarga la famiglia, a quella che viene creata dalla Parola di Dio e non solo da legami di sangue. Del resto che aveva detto Giovanni all’inizio del suo vangelo? “A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di essere figli di Dio e così a tutti quelli che credono nel suo nome”. Nasce una nuova famiglia, una nuova comunione di affetti e sentimenti, legami e progetti, di generosità e di dedizione, di presa in carico e di sostegno.
Tutti figli dello stesso Padre come lo è la famiglia. Era in atto contestualmente una esagerata appartenenza a clan, a fazioni e Gesù vuole assolutamente che le persone si riuniscano in comunità. Lo esigeva il Regno di Dio che non poteva esistere se non in un clima di famiglia, ma allargata a una comunità, capace di aprirsi alle esigenze del Regno di Dio. Il difetto di chiudersi è vecchio come il cristianesimo.
Papa Francesco ce la mette tutta per aprirci, per uscire, per allargare il concetto di popolo di Dio a una grande famiglia, a una comunità. E questa ce la dobbiamo sentire regalata da Dio stesso con la sua parola e con la fede.
Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 8, 16-18)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce. Non c’è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce. Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere».
Audio della riflessione.
Si fa tanto parlare oggi nelle nostre chiese di apertura missionaria. Siamo convinti di avere delle belle ragioni di vivere e non possiamo tenerle per noi. Non si tratta di fare proselitismo, di aumentare il numero dei cristiani, ma di essere talmente sensibili alla vita di tutti di voler mettere a disposizione di tutti il vangelo. Noi lo abbiamo trovato bello, affascinante, impegnativo, ma possibile per cui facciamo di tutto per offrirlo a tutti. Non diamo per scontato che tutti ormai conoscano il vangelo. Molti infatti quando ne leggono una pagina ne restano scossi. Significa allora che non è così conosciuto, come noi crediamo. Molti non hanno più nessun riferimento alla esperienza ecclesiale e l’hanno abbandonata prima di rendersi conto della sua grandezza e bellezza.
Se la fede è una luce, allora non la si deve coprire o spegnere, ma portare a tutti. La domanda però importante che non possiamo trascurare è: ma la nostra lucerna è veramente accesa o sta lentamente spegnendosi? La vera rilevanza di ogni testimonianza o di ogni missione è la capacità di essere stati in ascolto.
Dice il vangelo: Guardate, fate attenzione a come ascoltate. Se non ascoltiamo la Parola di Dio, la nostra testimonianza è portare gli altri qualcosa di non autentico, magari una bella relazione personale, che non guasta mai, un senso di amicizia in questa società piuttosto anonima, ma la fede è qualcosa di più profondo.
Certo qualcuno può dire: ho già una vita tanto complicata, ci vuole anche questa ora, di preoccuparmi anche di porre gesti di testimonianza. Noi sappiano che quando abbiamo molte cose da fare ce ne sta anche una in più, invece quando nona abbiamo niente da fare, sentiamo ancora più forte la fatica a fare anche solo una cosa che ci viene chiesta. E’ sempre così nella vita: se la vivi con grinta ci sta tutto quello che ti riempie il cuore, ti fai in quattro, non ti rincresce il tempo che impieghi, se vedi qualcuno che ha bisogno non lo lasci solo… se invece la vivi con noia non ci sta mai niente, anche le cose più belle, ti viene tolto anche quel poco che credi di avere, non sei mai felice, ti pesa tutto, vivi di rimpianti, di verbi al passato.
Invece la vita cristiana è proiettarsi sempre in avanti con speranza e di questa speranza vogliamo sempre vivere.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 20,1-16)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perchè ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perchè io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Audio della riflessione.
Precari nel lavoro è il nostro destino, siamo presi a giornata e buttati, dobbiamo fare cento lavori per sperarne uno un po’ più serio. Cinque mesi di qua, da giornalista, per una pubblicazione che deve convincere a far emergere il lavoro nero e io puntualmente pagato in nero; un anno dall’amico di papà che ti ha promesso mari e monti e poi ti liquida dalla mattina alla sera; una stagione a fare animazione, senza assicurazione; un anno finalmente a fare quel che mi è sempre piaciuto e poi la ditta è stata assorbita e mi hanno relegato al magazzino.
Stavolta me ne sono andato io. Ho fatto mille colloqui e tutti mi dicevano che mi avrebbero preso se avessi avuto qualche esperienza di lavoro in quel campo. Ma, me ne fate cominciare almeno una? Finalmente in internet ho trovato un bel lavoro, purtroppo è a progetto, prima o poi occorrerà cambiare. Liberi di prenderci e di lasciarci, ingiusti con noi ci tentano un po’ tutti. Con Dio sarà la stessa cosa?
Ditemelo, perché sono stufo di impegnarmi senza portare a casa un po’ di futuro e di vedere che tutti gli altri mi passano davanti. Erano precari anche quei lavoratori che stavano sulla piazza ogni mattina ad aspettare che qualcuno li andasse a invitare. Oggi la cosa si fa ancora più triste, perché non sei nemmeno precario, ma disoccupato. Nel vangelo però stavolta c’è proprio lavoro per tutti. Non ne resta fuori nessuno. Anche il solito che sta in discoteca fino a mattina, anche lui la sera va in piazza e viene preso a lavorare. Non s’è mai dato una mossa e ha sempre trovato di sbarcare il lunario. Sembra tutto casuale, ma chissà quante raccomandazioni ci stanno dietro. Ebbene tutti al lavoro; bello, oggi abbiamo riempito la vita, abbiamo dato un orario al nostro stare ad aspettare.
Il problema però non è finito: uno che lavora si vuol sentire anche riconosciuto. Qui, con Dio non solo c’è precarietà, non solo non sai mai quando Dio ti assume, ma non sai nemmeno che cosa ne ricavi. Il nottambulo pazzo che s’è dato una mossa solo verso sera prende come me che sono lì dal mattino, che ho programmato tutto, che ho impostato il lavoro, che ho potuto anche dialogare e valutare col padrone. Questa è pura ingiustizia!
Amico, non ti ho dato quello che avevo pattuito… oppure sei invidioso perché io sono buono?
Dio ha un altro modo di ragionare, sa che la nostra vita è precaria. Quello che Dio ha pattuito con noi è tutto, è molto di più di quello che ci meritiamo. Il paradiso non lo guadagniamo, ma ci viene dato in aggiunta. Non ti mancherà assolutamente niente nella felicità dell’abbraccio con Dio. Solo che devi guardare con altrettanto amore agli altri. Non perderti a guardare le differenze o a fare sequenze di merito. Godi che tutti possano incontrare Dio, anche a sera tarda. Saranno ancor più felici se incontreranno anche te ad accoglierli con gioia.
Ma c’è un punto di vista molto interessante per capire questo nostro Dio che non ci fa mai del male, che ci è padre, che non possiamo mettere sempre alla sbarra perché secondo noi ci fa dei torti: la famiglia. Oggi la mettiamo al centro non per far battaglie, ma per riscoprire di più la bontà di Dio
La famiglia è proprio il luogo in cui si può capire di più Dio. Il lavoratore della prima ora che resta deluso e si arrabbia con Dio per me era un single: tutto concentrato su di sé. Abbiamo in mente la parabola del padre misericordioso? Questo lavoratore della prima ora assomiglia proprio al figlio più grande tutto casa e chiesa, campi e vitelli, azienda e profitto. Come? Vieni qui ancora a dividere la mia eredità, dopo che ti sei fatta fuori la tua? Che giustizia è far festa al figlio pazzo e vagabondo. Questo tuo figlio!
Un papà, una mamma, un fratello sanno che in famiglia ci si rapporta molto diversamente e non si mette in atto nessuna ingiustizia, ma si vede che la giustizia ha bisogno di amore per essere una regola di vita.
Non decidono i figli quando nascere in una famiglia, dove non è un errore o un merito l’essere nati prima o dopo: l’amore di papà e mamma è sempre al massimo per tutti. Dio ci dona sempre il massimo, non fa differenza di persone; il suo amore non si baratta, non si taglia a fette, non si conta come gli euro: è la sua bontà infinita per noi, per tutti quelli che lo amano anche all’ultimo momento.
Nel nostro mondo a modello commerciale dove quello che più conta è la capacità di barattare, di stabilire accordi, scambi vantaggiosi, condizioni favorevoli, sfruttare l’occasione, intuire le debolezze del compratore per fare guadagni, farsi creativi nel collocare la nostra merce, pensiamo che il nostro rapporto con Dio sia un grande commercio.
L’idea forse la danno anche certe nostre abitudini di rapporto con le cose sacre, con i sacramenti, con le offerte, con i servizi liturgici, con gli oggetti sacri, le visite ai santuari. Spesso li facciamo diventare luoghi di commercio anziché di incontro tra la nostra povera vita e la grandezza di Dio.
Crediamo di poter commerciare la nostra salvezza, di comperare la sua misericordia, di sostituire l’amore vero profondo, con le nostre cose, di tenerci il cuore e di dare a Dio solo le nostre cose. E allora accampiamo diritti, rimproveriamo Dio perché non tiene conto di quello che abbiamo fatto, riteniamo di esserci guadagnati il paradiso, una vita bella, felice, solo perchè noi abbiamo dato, abbiamo fatto, abbiamo vissuto in un certo modo.
Vogliamo un rapporto con Dio non a modello commerciale, ma a modello famigliare; perché Lui è famiglia; è Trinità. Il paradiso Dio ce lo regala sempre; è più grande di ogni nostro merito; è dono del suo amore che decidiamo di accettare nella nostra vita.
Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 8, 4-15)
In quel tempo, poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: «Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la mangiarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. Un’altra parte cadde in mezzo ai rovi e i rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!». I suoi discepoli lo interrogavano sul significato della parabola. Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché vedendo non vedano e ascoltando non comprendano. Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza.
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Sempre bello sentire parlare di semina, perché è all’origine della bellezza della vita, del mistero di una apparente scomparsa o morte e la sorpresa di una novità che esplode. La piantina, le foglioline, i colori, lo sviluppo spesso anche sorprendente. All’origine ci sta un seminatore, colui che colloca il seme nella terra, nell’humus che gli dà possibilità di scomparire come seme e dare vita alla pianta. Il seminatore presentato da questa parabola non è un tecnico calcolatore di opportunità massime di produzione, non è un contadino incapace, ma sicuramente è un grande ottimista.
Spera infatti che anche le pietre diventino terra feconda e che dal suolo arido della strada spuntino spighe piene e mature. Sapendo poi che il seme e il seminatore sono la parola e Gesù, significa che destinatari della parola e direttamente di Lui sono tutti: cattivi e buoni, sfaccendati e impegnati “perché Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”.
E’ un seminatore che non segue criteri di opportunità, di efficienza, di gara, di ostentazione; non deve andare al confronto per la battaglia del grano o per il top della produzione, non ha contratti o imposizioni esterne: si rivolge a tutta la gente che viene a lui da ogni parte. Gli interessano i peccatori, i malati, i nemici più ostinati, i cuori induriti; non fa preferenze con i migliori, dimenticando gli scalognati, come facciamo noi. Rivolge lo sguardo a tutti. Sa di rischiare, ma l’amore suo sfida il fallimento, punta sulla libertà, prevede il rifiuto, ma nessuno lo ferma.
Questo te lo testimoniano le parti di terreno improduttivo, su cui ha gettato ugualmente il seme, che lasciano intendere la sua buona volontà, la sua fiducia e il suo impegno. Il seminatore Gesù è fiducioso e sostenuto da grande coraggio. Dio non si stanca di attendere la conversione dell’uomo: allo stesso modo ha agito il Cristo e devono agire i suoi inviati. Dopo tanti insuccessi si può arrivare a dei risultati superiori ad ogni attesa.
La semina allora è l’evangelizzazione, è sempre deludente e insieme consolante, avanza lentamente; occorre pazienza, coraggio, essere come Lui, capaci di saper credere e attendere, non badando a fatiche. Questa figura del seminatore, un poco anche bucolica, perché oggi non si semina più che con potenti trattori, macchine dotate di meccanizzazione automatizzata, è a noi cara.
La parabola del seminatore è la parabola dell’ottimismo e della speranza di ogni uomo nell’annuncio gioioso di Gesù, parola di salvezza. Fin dall’inizio il seminatore Gesù sa di dividere gli uomini in chi accoglie e chi gli fa guerra, in chi accoglie o in chi rifiuta o distrugge. Ci sarà pure nel grano la zizzania e l’erba cattiva, ma la pazienza del creatore ci dice di stare calmi. Ogni esperienza ha un suo posto nell’amore di Dio e nell’amore degli uomini. La semina e il seminatore invitano tutti a scegliere di fronte a una parità di opportunità che il Signore non farà mancare a nessuno.
San Pio da Pietrelcina che oggi ricordiamo fu alla grande un seminatore così e ha rivissuto nella sua travagliata esistenza la figura del seminatore, messo in evidenza da Gesù; il seminatore dovrà sempre esprimere il massimo di amore e porterà sempre la sua croce.
Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 8, 1-3)
In quel tempo, Gesù se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.
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Si fa sempre tanto parlare di femminismo, di maschilismo e sembra che nella chiesa solo perché le donne non possono diventare presbiteri o vescovi, ci sia disprezzo o sottovalutazione della donna. Gesù non è proprio di questo avviso, anche perché già nei suoi percorsi per la Palestina ad annunciare il vangelo è attorniato anche da donne oltre che dal gruppo degli apostoli. L’evangelista Luca è molto attento a mettere in evidenza questa speciale attenzione di Gesù verso le donne, e pone i discepoli e le discepole sullo stesso piano. Ci sono anche i loro nomi: Maria Maddalena, nata nella città di Magdala, detta erroneamente la peccatrice e di cui si è tanto inventato e romanzato, dimenticando che è stata la prima annunciatrice della Risurrezione di Gesù.
Lui l’ha guarita da sette demoni. Giovanna, moglie di Cusa, procuratore di Erode Antipa, che era governatore della Galilea. Susanna e diverse altre. Di queste si dice che “servono Gesù con i loro beni”. Gesù permette che un gruppo di donne lo “segua” . Alla morte di Gesù Marco informa che c’erano anche alcune donne, che stavano sotto la croce e poi ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Giuseppe, e Salomé, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme. Di esse si dice che seguivano Gesù, lo servivano e con Lui salirono a Gerusalemme, dove il verbo “ salivano” ha un significato più profondo del fare una strada in salita; è la condivisione del percorso verso il dono supremo di sé di Gesù che vive il salire a Gerusalemme, dove fu crocifisso, dando la vita per l’umanità come l’apice della sua vocazione.
Altre donne incontrate da Gesù sono: Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro, Maria, madre di Giacomo, ed Anna, la profetessa di 84 anni di età. Purtroppo la tradizione ecclesiastica immediatamente seguente ai tempi del vangelo non ha dato sufficiente valore a questo discepolato delle donne con lo stesso peso con cui dà valore alla sequela di Gesù da parte degli uomini, non dico solo degli apostoli. L’importanza di questa relazione di Gesù con le donne è una novità, non solo per la presenza delle donne attorno a Gesù, ma anche e soprattutto per l’atteggiamento di Gesù in rapporto a tutte quelle che incontra nella sua predicazione. Ricordo come la forza liberatrice di Dio, che agisce in Gesù, fa sì che la donna si alzi ed assuma la sua dignità. Gesù è sensibile alla sofferenza della vedova e solidarizza con il suo dolore.
Il lavoro della donna che prepara il cibo è considerato da Gesù come un segnale del Regno. La vedova tenace e decisa che lotta per i suoi diritti è considerata modello di preghiera e quella vedova povera che butta nel tesoro del tempio tutto il necessario che ha per vivere è modello di dedizione e di dono senza riserve e di umiltà. Nella sua epoca che non prendeva molto in considerazione le donne, Gesù le accoglie e le sceglie come testimoni della sua morte, della sua sepoltura e della risurrezione. Un atteggiamento veramente rivoluzionario e profetico, che noi oggi non possiamo non mettere in risalto, non solo contro i femminicidi che stanno imbarbarendo la nostra convivenza civile, ma anche per tutte le disuguaglianze di diritti che ancora non sono riconosciuti per tutti: uomini e donne.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 9, 9-13)
In quel tempo, mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».
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Prendere decisioni per la propria vita, il proprio futuro, per quella felicità cui tutti siamo chiamati, consapevoli di dare un senso bello e pieno alla vita è sempre molto difficile. Si procede spesso per tentativi, dentro incertezza e rischio. Quale è la mia vera strada? C’è qualcuno che mi aiuta a trovare la strada giusta? C’è un satellitare infallibile? Spesso forse siamo in attesa che sia qualcun altro che decide per noi. Non è bello non caricarci della responsabilità della scelta, e nemmeno pensare di scaricare su altri i nostri fallimenti.
Qualcuno invece sembra abbia deciso bene, se ne sta tranquillo a fare i fatti suoi, a un certo punto però si accorge che c’è qualcosa che non quadra nella vita oppure viene posto di fronte con evidenza a una luce, a una intuizione, a una verità, mai finora percepita, che gli fa cambiare radicalmente strada, gli si aprono gli occhi, si sente dentro una voce, una spinta che non lo lascia tranquillo.
Matteo era uno di questi. Pacifico, stava a contare i suoi soldi in banca, aveva un lavoro fisso, disprezzato da tutti perché se la intendeva per forza di cose con i romani, potenza occupante della Palestina; un avvenire sicuro, una cerchia di amici della stessa risma che gli faceva da cortina di fumo per non vedere i problemi, qualche bella cena, qualche buona avventura e guadagno sicuro.
Ma un giorno gli capita al banco dove sta contando euro a non finire Gesù. E Gesù punta su di lui lo sguardo, il dito, la sua persona, la sua voce perentoria, tutto il suo fascino e gli dice: Seguimi! e lui alzatosi, messosi dritto davanti a Gesù, davanti alla vita, davanti a un nuovo futuro, nella dignità di tutta la sua umanità, messa in discussione da questo invito, lo seguì.
Continua ancora la sua vita di relazione, ha ancora i suoi amici, sicuramente deve giustificare loro perché abbandona la sua ricca posizione sociale per correre dietro a un predicatore che non si sa quanto raccomandabile sia; sta di fatto che vuole che Gesù incontri questa sua potente fasciatura, tutto il mondo di pubblicani che lo accerchia.
E Gesù va con grande scandalo dei benpensanti a sradicare certezze e a portare la sua speranza. Gesù non disdegna nessuna delle nostre mense, si fa compagno di tutti, non ha paura, vuole solo la nostra felicità.
Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 7, 31-35)
In quel tempo, il Signore disse: «A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!”. È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: “Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!”. Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».
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Ci sono giornate in cui ci si mette tutto di traverso. Non te ne va bene una. Disperato, ti rifugi nell’oroscopo, e così aumenta l’illusione e, a tempo giusto, la depressione. Ma ci sono giornate, e sono le peggiori, in cui sei tu che hai sempre una scusa pronta di fronte a tutto e a tutti, perché vuoi stare nella tua comodità. Fingi di cercare qualcosa che vale per la tua vita, ma applichi a tutto ciò che ti mettono davanti e a tutti i risultati delle tue ricerche un netto rifiuto. Esiste un torpore della vita, un egoismo camuffato da serietà, un immobilismo conservatore delle proprie posizioni e dei propri privilegi, che sa spegnere ogni entusiasmo.
Mi immagino un papà di fronte a un figlio: non c’è nessuna proposta che lo smuove, ma mi immagino anche un giovane di fronte a qualche prospettiva di lasciare il branco, di prendersi in mano la vita, di darle una svolta di autenticità; niente: il mio pub, la mia latta con cui scarrozzo per tutti i centri commerciali i miei amici, le mie abitudini piccole, piccole. Io sto bene così.
A Gesù capitava spesso di trovarsi di fronte a muri di gomma, a gente incapace di spostarsi di una virgola, incapace di dare slancio alla propria vita. Prima di lui calcava la scena Giovanni, un fustigatore di costumi, un uomo rude, scomodo, provocatore. Figurati se io mi lascio incantare da questo spiritato! Non fa ‘l fanatico.
Arriva Gesù: la dolcezza in persona, l’uomo di compagnia che non crea distanze nè col buono né col delinquente. “Per chi mi hai preso? per un sentimentale? ci vuole altro per me nella vita! E anche di fronte a Gesù ha trovato la scusa per farsi sempre e solo i fatti suoi.
E rimani solo nel tuo brodo, nelle tue false sicurezze, nella tua mediocrità felice e la vita ti si spegne ora lentamente, ora in fretta come una sigaretta che fumi sulla porta di casa. Decidi una vita senza speranza.
Chi invece è capace di scegliere viene subito sostenuto da quello che fa. La speranza non è mai senza concretezza, i fatti la dimostrano. I martiri della nostra fede non hanno tergiversato mai, non si sono fatti portare una margherita per strappare, i petali e decidere che fare; non hanno giocato a dadi se seguire o no Cristo; hanno dato la vita a Cristo, non solo qualche momento o non hanno detto qualche preghierina soltanto a sera o fatto qualche buon gesto. Oggi chiediamo ai santi martiri coreani Andrea e Paolo cui ne sono associati 101 con i loro nomi precisi e purtroppo le persecuzioni in Corea ne uccisero ancora più di 10.000) di intercederci da Dio sempre il coraggio della loro fede.
Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 7,11-17)
In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.
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Sotto gli occhi di chi passava per Nain una località della Palestina un giorno si incrociano due cortei: da una parte il funerale di un ragazzo, accompagnato da sua madre vedova, uno sguardo forse fatale sulla vita e dall’altra una accozzaglia di gente: la tanta gente che è rimasta incantata da Gesù; da una parte una mesta e continua solidarietà fatta di commiserazione e forse anche di domande, Dio non voglia, di bestemmie contro un Dio che non vede, non sente, non ha cuore; dall’altra un popolo ancora disordinato, curioso, appena svegliato da un letargo di secoli, che comincia a sperare. Anche loro si fanno domande, quelle che i discepoli di Giovanni avranno il coraggio di esternare. Sei tu quello che aspettiamo?
Si incrociano una conclusione e un inizio, la realtà e il sogno: lo spartiacque è Gesù. E Gesù scompone, altera, cambia la realtà, e dà gambe ai sogni. Dice perentorio, autorevole, deciso: Ragazzo alzati. La morte di fronte a lui è impotente. Si ritira. La meraviglia è grande. I due cortei si sciolgono e si confondono, la disperazione e la speranza si ricompongono in una nuova realtà, sono uniti da una certezza: Dio ha visitato il suo popolo. Non è vero che siamo di nessuno. Non siamo abbandonati in una landa di ululati solitari.
Nella mia esperienza di vescovo ho visto tanti cortei di giovani, sempre molto lieti, cercatori, curiosi e pieni di domande. Penso alla GMG di Lisbona. penso ai pellegrinaggi a Fatima, a Lourdes o a Medjugorie, dove ho confessato non poche volte la marea di giovani che con la morte dentro, vogliono sentirsi dire: ragazzo alzati. Anche nella festosa GMG molti giovani hanno udito questo invito di Gesù: ragazzo alzati, riprendi a vivere una vita bella, felice, sana. E’ una domanda che nasce nel cuore di tutti anche di noi anziani. E’ possibile riprendere la vita cristiana sempre; Gesù ci fa sentire la sua voce: alzati.
Perché c’è stato ancora un altro corteo solo di dolore, un corteo peggiore di un funerale, un corteo di odio, di cattiveria, di sopraffazione, di vendetta, il corteo del Calvario, solo che quello crederà di aver vinto, di essere definitivo, di aver affossato definitivamente le speranze: ma quel Cristo che crederà di eliminare con la morte, Dio lo risusciterà e farà a tutti in ogni corteo della storia il suo comando: alzati.
Una riflessione sul Vangelo secondo Luca (Lc 7, 1-10)
In quel tempo, Gesù, quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafàrnao. Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano –, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga». Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa». All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.
Audio della riflessione.
Non è raro anche ai nostri giorni incontrare gente che ha una fede incrollabile. Quando si parla del loro futuro, della loro esperienza, della vita di famiglia, dei progetti della propria vita vanno avanti con una decisione invidiabile. Ci sentiamo sicuri nelle mani di Dio. Affidiamoci a Dio che sicuramente ci aiuterà; se siamo nelle mani di Dio, non ci capiterà niente di male… Noi invece spesso siamo titubanti, viviamo di se e di ma, di forse e di verbi al condizionale: sarebbe bello se… certo ci potrebbe capitare che… almeno mi rendesse qualcosa credere in Dio?!
Un uomo invece tutto di un pezzo è questo pagano, questo capitano che ha a casa un servo che sta male e gli interessa vederlo tornare sano. Lui è un militare. È abituato a comandare, ha idee chiare, sa di chi può disporre e come disporne, non ammette tergiversazioni. Fa questo, fa quell’altro, sbrigati, prendi questa posizione.. abbiamo tutti in mente come sono determinati e come non ammettano eccezioni tutti i militari di questo mondo.
Ebbene il centurione paragona la sua vita a quella di Gesù. Se Gesù viene a offrire agli uomini una parola di salvezza e dice di essere in contatto con Dio tanto da dichiararsi suo Figlio deve essere assolutamente risoluto e capace di ottenere quello che vuole. Che figlio di Dio sarebbe se dovesse anche lui vivere di congetture, aspettarsi qualche decisione di maggioranza per fare qualcosa?
Avere fede è un vago sospiro di chi alza gli occhi al cielo più rassegnato che convinto o è un investimento serio sulla nostra vita che ci apre orizzonti nuovi possibilità impensate, dialogo confidente con il Signore? Ecco, lui si immagina che la fede sia una forza, una certezza, non certo matematica, ma capace di ribaltare una vita e di farla crescere e renderla più bella e più vera. Gesù lo loda. Dice il vangelo che Gesù restò ammirato e disse che una fede così non la vedeva nemmeno tra i credenti.
Il problema è che tante volte ci abituiamo alla fede senza renderci conto della novità e della forza che ha, non la valorizziamo e talvolta ci sembra un peso. Abbiamo bisogno di imparare da chi non crede per vedere quanto siamo fortunati ad essere credenti.
La fede è una cosa seria, non è un optional o un altro tentativo di tirare a campare; è una vita bella, felice e piena di speranza.
Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 18, 21-35)
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
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Ci rappresenta un po’ tutti quella parabola che narra di quel servitore perdonato alla grande dal suo creditore, che fa lo strozzino con un suo debitore che in confronto gli deve solo quattro miseri spiccioli. Vagonate di oro era il suo debito, pochi soldi il suo credito. Questa è la nostra fotografia di fronte a Dio. Il nostro debito verso di Lui è senza misura e Lui se lo carica sulle spalle e ce lo cancella. Siamo stati perdonati, ma non abbiamo ancora capito che cosa è il perdono, non lo abbiamo ancora accolto, ci è rimasta dentro una mentalità da schiavo, calchiamo sempre con i nostri passi il perimetro della prigione che ci siamo fatti allontanandoci da Dio. Siamo abituati a vivere in una pozzanghera e non sappiamo renderci conto del mare aperto. Giochiamo ancora con le barchette di carta.
Chi ci permette di accettare la pienezza del perdono è lo Spirito. Dio ci fa liberi, noi a mala pena ci sentiamo liberati, abbiamo ancora addosso tutta la fasciatura del male, tutta la nostra mentalità da galeotti, da gente che deve sfruttare le occasioni, deve calcolare, deve farsi rincrescere la bontà. Siamo ancora ammalati di delirio di onnipotenza, il modello di ragionamento non è affatto cambiato. Quello che lo strozzino descritto nel vangelo fa al suo debitore è ancora legato al suo falso “ti restituirò tutto” detto al padrone, a Dio, una falsità consapevole, con la pretesa di imbrogliare il Signore, che è tanto buono da far finta di niente, sapendo che purtroppo si sta rovinando con le sue stesse falsità.
Il suo comportamento con il suo piccolo debitore è evidentemente crudele, ma è più sottile e infido di quanto pensiamo. Ha considerato il condono ottenuto, una sua furbizia, un suo merito dovuto alla sua richiesta e non assolutamente un invito a cambiare il suo cuore. Crede di essere lui il salvatore, ma non ha ancora capito di essere un salvato, un comprensivo e non ha capito di essere un perdonato, uno che accoglie e non ha capito di essere stato accolto, un giusto e non ha capito di essere stato giustificato, uno che può esprimere amore, ma non ha capito che è stato tanto amato. Ma salvatore, comprensivo, accogliente, giusto, amabile è Dio, non Lui. Non ci passa nemmeno per la testa che queste qualità devono essere d’ora in avanti le nostre, che il dono più grande del perdono è il cambiamento del cuore.
Proprio per questo il perdono di Dio è legato al nostro perdonare, è quel gesto di Dio che è legato indissolubilmente alla nostra libertà; Dio non riesce a perdonare se nella nostra libertà non ci lasciamo cambiare dal suo perdono. Il perdono torna indietro.
Toccherà ancora a Dio riprenderci perché Lui non ci abbandona mai.