San Giuseppe Lavoratore: primo maggio, festa del lavoro

Una riflessione sul Vangelo secondo Matteo (Mt 13, 54-58)

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Primo Maggio, festa del lavoro, inizio del mese della Madonna: ricordiamo San Giuseppe.

Da buoni cittadini italiani, non vogliamo nella nostra esperienza ecclesiale snobbare una festa civile: oggi è festa del  lavoro, e da sempre in questa giornata la Chiesa ha voluto fare memoria – nella Messa – dell’esperienza semplice, quotidiana, faticosa di un lavoro con cui Gesù si è misurato, necessario per vivere concretamente la vita dell’umanità, una incarnazione vera. 

Aveva imparato a guadagnarsi da vivere da san Giuseppe, se i Vangeli lo ricordano come il figlio del carpentiere: da ragazzo non giocava soltanto, non viveva facendo passerotti di creta da far volare miracolosamente, come dicono alcuni Vangeli apocrifi. 

Gesù torna nella sua patria, dove era cresciuto, dove era stato per trent’anni, dove aveva fatto il falegname; Gesù aveva imparato ad affrontare il rischioso mestiere di vivere che tocca ad ogni uomo e donna: la fatica, la quotidianità, la ripetitività, le relazioni, le scoperte, le incomprensioni; insomma tutto ciò che avviene in un paese e che avviene in ogni paese, l’ha vissuto pure lui: ha vissuto quelle cose che noi cerchiamo di schivare, o per lo meno non apprezziamo, perché non hanno  significato, e sono la quotidianità.

Importantissimi quei trent’anni invece! Ed entra nella sinagoga, dove ha imparato a leggere, a scrivere, ha imparato la Parola di Dio, è cresciuto, dove ha tutti i suoi ricordi, i suoi compagni, e la gente rimane stupita e alla fine lo rifiuta.  

Noi diciamo spesso “gli oscuri anni di Nazareth”, anche perché nei confronti di Gesù abbiamo ancora la stessa mentalità dei suoi compaesani: anche noi non capiamo perché Gesù ha vissuto la maggior parte della sua esistenza, in un paese anonimo, in un’esistenza incolore, con millenni di attesa, secoli di preparazione e arriva il Messia, e per trent’anni: niente. Non fa, non dice nulla che non sia “strettamente normale”. 

Quando il vangelo ci dice che lui è il figlio del carpentiere, ci fa capire che era subentrato nel lavoro del padre; non è un lavoro qualificato: aggiustava gli attrezzi, gli utensili da lavoro, costruiva pezzi che potevano rimettere a posto mobili disfatti; viveva – insomma – lavorando per altri.

Gli “oscuri anni di Nazareth”, sono una rivelazione del modo con cui Dio si inserisce nel nostro quotidiano e lo vive in un modo diverso: dà un grande significato positivo, profondo al lavoro quotidiano; il lavoro è il cantiere allora del Regno di Dio: è in esso che la persona si “allena”, si forma al senso della vita, della collaborazione, della solidarietà, della concretezza, dell’approfondimento della sua umanità, della sua dignità.

Quanto siamo ingiusti se lasciamo la gente senza lavoro: le viene a mancare, oltre che la possibilità di vivere, la stessa dignità umana.

Oggi che l’epidemia forse sta mollando la presa, ci lascia un grande impegno per tutti e per le istituzioni: ridare e offrire un lavoro dignitoso per tutti. 

E’ un compito che ci deve vedere impegnati tutti, da persone e da cristiani. 

1 Maggio 2020
+Domenico