San Silvestro non ci rimanda a una fine, ma sempre all’inizio

Una riflessione sul vangelo secondo Giovanni (Gv 1,1-18) 

Ogni giorno abbiamo bisogno di riti per capire chi siamo, che esistiamo, che il tempo passa, che la vita ha un senso.

E’ un rito il bacetto prima di uscire di casa, è un rito la preghiera, lo è la telefonata o l’sms, il mazzo di fiori, il buon giorno anche se detto qualche volta tra i denti, è un rito il regalo di Natale anche se rischia di essere un ricatto o un legaccio.

Oggi che è l’ultimo giorno dell’anno è un rito lo scatenarsi dei botti, dei brindisi, del lancio degli oggetti vecchi, della cena con gli amici, del cambio del calendario.

E’ il tempo che passa inesorabile e forse si fa baldoria perché noi adulti che lo vediamo fuggire vorremmo fermarlo e i giovani vorrebbero scavalcarlo perché non vedono l’ora di essere autosufficienti e padroni della propria vita.  

Il vangelo invece per farci capire dove siamo e che cosa significa il passare del tempo ci rimanda al principio anziché alla fine, ci ricorda che all’inizio di tutto c’era al Parola.

Non esisteva nulla, c’era il caos forse, esisteva solo Dio nella sua vocazione fondamentale: comunicatore.

Dio era ed è Parola, uno che fa consistere il suo essere nel comunicarsi, nel farsi dono, nel proiettarsi verso, nel far essere.

Il tempo è cominciato proprio lì, dalla sua volontà di far essere l’uomo per dialogare con una libertà. Proprio per portare questo dialogo alla sua massima possibilità, questo Dio Parola, questo Dio comunicativo, s’è fatto uomo, s’è dato una vita tra noi per aumentare al massimo il dialogo.

La comunicazione tra due persone è al massimo, quando più grande è quello che si ha in comune.

Dio ha voluto aver in comune la vita intera.  

E noi ci avviamo a chiudere il 2019, un anno che è stato pieno di crisi e di fatiche. 

Ciascuno avrà un momento per pensare a dove sta andando la sua vita,  per fare un bilancio, per rendersi conto di tanti doni, di tutte le persone che la condividono con lui, per ricucire torti, per ritornare saggiamente indietro da vie sbagliate che ha preso.

La notte di S. Silvestro non è baldoria per dimenticare, ma festa per ringraziare e forza per cambiare.

E’ diventare più vecchi di un anno, è celebrare con un rito il tempo che passa, ma seminare ancora e sempre nuova speranza. 

31 Dicembre
+Domenico

30 Dicembre: La profetessa Anna, vecchia, ma non di spirito

Una riflessione sul vangelo secondo Luca (Lc 2,36-38) 

Capita a tutti di incrociare in luoghi di grande afflusso di persone, mercati, piazze … santuari, cattedrali, delle nonnine “rattrappite”, con a seguito borse, pacchi, stracci e carrelli dove … si tengono tutto il necessario e il superfluo che fa la loro vita.

Le vedi vagare, parlare tra sé, ogni tanto imprecare contro cose o persone, e alla fine acquietarsi, senza badare a niente e a nessuno, nemmeno a chiedere qualche spicciolo … per vivere.

Doveva fare questa impressione la vecchia profetessa Anna di cui parla il vangelo di Luca; era proprio vecchia: ottantaquattro anni di allora sono come … più di 100 nel terzo millennio.

La sua età era … un età, però, che non aveva spento l’attesa del popolo di Israele.  

La vera vecchiaia è non aspettare più niente, vivere ogni giorno senza speranza, credere che tutto sia deciso e che inesorabilmente venga avviato verso un fantomatico destino su un nastro trasportatore.

Puoi essere vecchio anche da giovane, quando ti assale la noia, quando stai ai bordi dell’esistenza a fumarti la vita, la salute e le energie, quando ti affidi alle sostanze perché non senti più il sapore dell’esistenza, quando senza accorgerti cominci a dire ormai o, peggio ancora, “ai miei tempi”.  

Anna invece non s’allontanava mai dal tempio.

Non era una chiesa qualunque, un luogo di funzioni religiose, era il cuore di un popolo, era il punto di arrivo di ogni attesa, aspirazione, provocazione e ricerca.

Se il Signore, benedetto sia il suo nome, manda  il salvatore, è da qui che deve passare, è da questo luogo di preghiera, è da questa rete di scambi, di aspettative che si consumano ogni giorno.  

Lei aveva in cuore una certezza: Dio avrebbe risposto a questa sete di salvezza e bisognava prepararsi, allenare il cuore a percepire la venuta del Salvatore.

Lui non lo si aspetta nei bagordi, nelle piazze, nelle caserme, nei palazzi dei re: Lui è re, ma si lascia accogliere nei cuori puliti, e digiunava, non dava al corpo tutto il cibo di cui sentiva il bisogno per tenere il cuore desto.

A noi invece hanno sempre insegnato che se senti un istinto,  devi seguirlo: Che c’è di male nel mangiare e nel bere? Perché devo andare contro la natura se questa è stata così ben fatta da Dio? Lei invece coglieva che il corpo si intorpidisce se non lo tieni allenato alla ricerca; lei sapeva ciò che ogni sportivo conosce, che se hai una meta davanti devi prepararti tutto: cuore, spirito e corpo a perseguirla.

Non sei un masochista, ma un atleta che fa convergere tutto alla competizione, allo scopo della sua attesa.

Se accontenti sempre il corpo, l’anima s’addormenta, se hai il coraggio di tenerlo in tensione la vita si arricchisce, la vista si pulisce e il cuore si allarga.

Quando Anna vede il bambino non le par vero di poterlo dire a tutti … tanto lo aveva immaginato che la vita, il futuro di questo bambino le era davanti agli occhi come una certezza.

Questo bambino che abbiamo atteso a lungo, che io nella mia lunga vita ho sempre pensato e immaginato, che nelle mie preghiere mi era dato di sentire, che i nostri avi hanno da sempre previsto, che molti si sono stancati di  aspettare, è qui.

La vita ora è diversa.

Sono vecchia da buttare, ma sono contenta di aver dato a voi questo segnale di speranza.

Ora lo affido a voi, non me lo trattate male, perché chi vi ha preceduto lo ha aspettato per millenni.

Lui è il punto di arrivo del nostro popolo, non aspettate altri.

Non fu così: la malvagità umana anche oggi lo continua a inchiodare in croce, ma Anna lo gode risorto e definitivo con i suoi padri. 

29 Dicembre: La famiglia nella prova, col sostegno della santa famiglia di Gesù

Una riflessione sul Vangelo seondo Luca (Lc 2,41-52)

La nostra attenzione oggi va alla santa famiglia di Gesù, alla  nuova famiglia che Dio ha costituito per vivere il suo piano di immedesimazione nella vita umana, che segue la vita normale di un popolo.

Dio ha sposato un popolo da sempre, ora sposa una famiglia e con questa famiglia tutte le consuetudini caratteristiche che la fanno appartenere pienamente a esso.

Una famiglia ebrea aveva nel suo DNA la celebrazione della Pasqua.

I bambini ogni anno partecipavano alla cena pasquale e, curiosi come sono, hanno sempre riempito i gesti solenni e incomprensibili dei genitori di insistenti perché.

Quando i tuoi figli ti chiederanno che cosa è questa cena, perché mangiamo in piedi, perché la mamma non ha messo il lievito nella farina… tu risponderai “è il passaggio del Signore che ci viene a liberare come quella notte” …  

Ebbene Gesù a dodici anni, prima che scatti il tredicesimo che lo iscriveva al mondo adulto, partecipa coi suoi genitori al pellegrinaggio verso Gerusalemme.

Abbiamo in mente che cosa è successo … Il solito incidente delle gite: si sarà fermato all’autogrill, sarà con suo padre, chi riesce a star dietro a questi ragazzi di oggi, svegli, spesso indisciplinati, incapaci di stare un po’ con i propri genitori, sempre a giocare e a fare scherzi … Tornano a casa sempre sudati e sporchi, quando non laceri e contusi.

Disperazione sul volto dei genitori, ansia, ricerca spasmodica: chi è l’ultimo che l’ha visto, dove era?

Poi il cammino a ritroso, il ritrovamento, lo stupore: Il ritrovato è sempre più calmo di quanto si pensi, non immagina il dolore provocato, è concentrato sulla sua avventura … e Gesù sta insegnando ai dottori del tempio!

Quattro parole dette tra i denti, due dette davanti a tutti e una affermazione solenne, troppo solenne di Gesù chiudono l’incidente.

Il ritorno a Nazaret fa balenare la ripresa di una vita di famiglia normale, che aveva avuto in questo episodio uno squarcio di mistero.

Non compresero.  

Maria qui appare la persona che domina gli avvenimenti, che piega la storia del piccolo gruppo di pellegrini al suo centro, che non era Gerusalemme, ma Gesù: Potremmo dire una famiglia come tutti, con i problemi di tutti, con al centro Gesù, il mistero che si rivela. 

Ma saremmo poco fedeli alla Parola ascoltata se ci fermassimo a questa interpretazione; abbiamo ascoltato il racconto dell’evangelista Luca: la sua intenzione non è quella del corrispondente del Corriere della sera che deve narrare della fuga del solito adolescente, rintracciato alla stazione tutto dolorante e pentito e contento dell’intervista che lo fa apparire in TV e che gli risparmia qualche ceffone dai genitori, con un finale bello che può intenerire i lettori … e’ l’evangelista del racconto dei due discepoli di Emmaus; anche là, non narrava solo la gita fuori porta di due amici, col morale ai tacchi e con nel cuore la pietra tombale dell’ormai suggellata sulla tomba del crocifisso, ma parlava del cammino di accoglienza del Risorto che ogni cristiano avrebbe dovuto fare da quel momento in poi. 

Così anche qui: Il numero tre dei giorni di assenza di Gesù è troppo uguale al numero tre dei giorni del suo permanere nella tomba; la ricerca appassionata e carica di tensione di Maria è troppo simile alla ricerca col cuore in gola di Pietro e Giovanni e al pianto sconsolato di Maria di Magdala; L’angoscia di Maria è l’angoscia delle donne al sepolcro. 

Gesù era rimasto a Gerusalemme: Un modo di dire così indica che Gesù è deciso a fare di Gerusalemme il vertice della sua missione.

Gesù compie il pellegrinaggio con un anno di anticipo, sul suo essere adulto, anticipa con questo pellegrinaggio il desiderio che lo spingerà a Gerusalemme per mangiare la sua Pasqua.

Il ritrovamento è immagine precisa della scoperta di lui risorto: Infatti lo trovano seduto, un verbo che, mentre fotografa una posizione fisica, definisce una funzione che gli spetta dopo la morte e la risurrezione; si siederà alla destra di Dio.

E’ nell’atto di insegnare, come spetta al Signore del cielo e della terra.

E’ Lui la sapienza, Lui la riposta, Lui ancora che spiega le scritture in virtù della sua consacrazione nella morte e risurrezione: Qui tra i dottori anticipa il suo stato futuro. 

E Maria, quando lo vede, gli racconta tutta la sua ansia, la sua ricerca, il suo affanno, il suo non capire, proprio come i discepoli di Emmaus.

E tra le prime parole di Gesù che ci sono riferite nei vangeli appare la bellissima parola: padre, abbà.

E’ venuto al mondo per questo, per dirci che Dio è Padre. 

Il quadro allora si ricompone, lo smarrimento e il ritrovamento sono figura di una morte e una risurrezione, di un futuro certo. 

Maria non  ha capito ancora tutto il futuro di Gesù: come è difficile per noi entrare nel suo ordine nuovo di idee, di sentimenti, di slanci e di azioni, ma ci indica la strada da percorrere.

Stanno con Gesù, e custodisce ogni parola come un seme: E’ quel seme che viene gettato larghissimamente dal seminatore e che trova nel cuore di Maria, come nel cuore di ogni uomo, la possibilità di svilupparsi.

In Maria si è sviluppato al cento per cento.

Ora lei scompare nella vita quotidiana della santa famiglia: Lì il Signore ha imparato a essere abbracciato e baciato, allattato e amato, a toccare e parlare, giocare, camminare e lavorare, a condividere i minuti, le ore, le notti e i giorni, le feste, le stagioni, gli anni, le attese, le fatiche e l’amore dell’uomo.

Lì ha ascoltato le parole della Torah, della legge, le preghiere a Dio, di cui non si poteva pronunciare il nome e che lui sentiva come papà.

A Nazaret Gesù accanto a Maria ha imparato a essere uomo: L’artefice della sua formazione umana è stata Maria, come ogni donna nella vita del popolo ebreo. 

Una famiglia così ce la auguriamo tutti e la invochiamo da Dio per tutti i nostri ragazzi, i nostri giovani, che non devono essere costretti a cercare nella droga la risposta alla carenza della figura del padre o della madre, del clima d’amore di una famiglia. 

Noi, come Lei, ora conserviamo ogni Parola di Gesù gelosamente non per farcene un possesso, ma per caricarlo della forza di un dono che dobbiamo e ci impegniamo a portare a tutti. 

+Domenico

28 Dicembre: I Santi Innocenti ci mettono in una “salutare” crisi

Una riflessione sul vangelo secondo Matteo (Mt 2, 16-18)

Il mistero del dolore innocente è, per tutti credenti e non, uno scandalo.

Dio stesso, è rimasto come spiazzato di fronte alla malvagità e cattiveria che l’uomo da lui creato è riuscito a inventare. 

La storia dell’umanità è storia di grandi conquiste, di maturazione verso il bene, ma contemporaneamente è la storia dell’intelligenza applicata al male, del male gratuito, dello sfogo iniziale, immotivato, della barbarie sempre più sofisticata.  

Uomini fugaci nell’amore e tenaci nell’odio.

Di fronte a questo fatto c’è il silenzio di Dio il dolore innocente si infrange contro un cielo di cristallo, freddo e indifferente.

R. Gualdrini sul letto di morte ebbe a dire: nel giorno del giudizio dovrò rispondere alle tante domande che Dio mi farà, ma ne avrò anch’io un paio da fargli: perché la sofferenza degli innocenti?

Perché non riusciamo a trovare una spiegazione al dolore?

Credo che una continua preghiera che possiamo fare a Dio sia proprio quella che in diverse forme ci viene dalla Bibbia: Fino a quando Signore mi nasconderai il tuo volto?

Dio mio perchè mi hai abbandonato!?
Perché mi respingi?  

Maledetto il giorno in cui nacqui…mia madre poteva ben essere la mia tomba!

Signore distogli il tuo sguardo, così che io respiri un istante. Dice Giobbe nel colmo della sua disperazione. 

Risale al 2200 a.C. il dialogo con la sua anima di un suicida: la morte è davanti a me come la guarigione per un malato come l’ombra nella oasi del deserto, come il profumo della delle ore dell’alba. 

Anche Giobbe per non poche volte impreca, maledice, bestemmia descrive Dio come un arciere sadico che gli trafigge per divertimento, reni, fegato, cuore. 

Il dolore e il male sono una tomba. Sono una componente della nostra vita di fronte al quale non si devono cercare pezze, soluzioni di bassa lega volte solo a esorcizzare, a non fare i conti.

Bisogna passarci dentro: rispettare chi ci soffre, rispettare il momento in cui si soffre e sopportarlo con pazienza.

Spesso non c’è ora di adorazione che tenga.

Giobbe sopportò tutto: ha perso la pazienza solo quando sono arrivati i suoi amici a consolarlo. 

La ricerca della consolazione è il rifiuto del limite, è segno di onnipotenza, è non volere toccare il fondo.

Solo se sapremo toccare il fondo della nostra povertà, solo allora avremo in dono la Resurrezione, la speranza. Invece stiamo a perdere tempo a ingannarci con piccole consolazioni che polverizzano la nostra dignità umana. 

Le ultime parole di Gesù sono state il grido di una disperazione umana lanciata nelle braccia di un padre. 

Quel grido è stata la prova per la fede dei presenti.

È il pianto di Rachele.

È il vuoto assoluto che può essere riempito solo da Dio. 

27 Dicembre: La Più bella Corsa della Storia

Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,2-8)

I giovani corrono, i giovani sono scattanti, i giovani si entusiasmano subito, bruciano le tappe, i giovani vogliono spremere il massimo dalla vita, i giovani sono impazienti di sapere e di vedere, di provare e di scoprire. 

Gli adulti invece sono calmi, sono riflessivi, le hanno già provate tutte e procedono con cautela, non abboccano al primo che parla; Gli adulti sono lenti, spesso smorzano tutto, soppesano tutto, ma sanno dare ancora consigli saggi. 

Erano un giovane e un adulto quei due che la mattina di quel famoso primo giorno dopo il sabato si sono incamminati correndo verso un posto già visto per Giovanni, un luogo nuovo per Pietro; il posto era il Golgota nei pressi del quale c’era il sepolcro nuovo in cui era stato ricomposto in fretta il cadavere di Gesù.

Hanno udito notizie sorprendenti, vociare di donne, correre di informazioni, meraviglie, domande, esclamazioni, dubbi.

Nella tomba non c’è più.

Siamo andate di buon mattino perché volevamo imbalsamarlo, ma là il corpo non c’è più.

Erano Giovanni il giovane, quello che aveva assistito fino all’ultimo momento, all’ultimo spasimo, Gesù che moriva, per sostenere sua madre e Pietro, quello che aveva dato il colpo di grazia del tradimento a Gesù, quello che, mentre Gesù veniva sbeffeggiato e insultato da tutti, non aveva avuto il coraggio di stare dalla sua parte.  

Due vite incantate da Gesù, due apostoli, due storie si rimettono in corsa col cuore in gola per poter sperare ancora, per potersi dire che non è vero che tutto è finito, per farsi sorprendere dalla potenza di Dio.

Giovanni è giovane, è innamorato perso e corre di più; Pietro è adulto, si porta dentro anche il peso del tradimento e arranca.

Giovanni lo precede, arriva prima, ma si ferma davanti al sepolcro, aspetta Pietro.

Il giovane è entusiasta, è veloce, ma sa di avere bisogno della saggezza di Pietro.

È sempre così anche nella vita: giovani e adulti stanno bene insieme, hanno bisogno gli uni degli altri. 

La scoperta che assieme fanno è di grande importanza: sarà determinante per i secoli futuri.

Anche loro constatano che Gesù non c’è più, il suo corpo che Giovanni aveva visto esalare l’ultimo respiro non c’è più. E descrivono il lenzuolo, la sindone, le bende che avevano hanno avvolto Gesù afflosciate su di sé, come se da sotto ne fosse sparito il corpo. 

Il Natale che abbiamo appena festeggiato già ci rimanda alla Pasqua: Quel bambino che abbiamo contemplato nella sua nascita è quel Gesù che sarebbe stato ucciso, ma che avrebbe vinto la morte con la risurrezione, dando al mondo una speranza definitiva. 

Ci viene facile pensare a Maria che quei momenti iniziali della vita di Gesù ha vissuto con grande intensità, portandosi dentro tutta la decisione di star fedele a suo figlio fino alla morte.

A quella corsa dei due apostoli Maria partecipava col cuore in gola, era stata tutta per il Signore, la sua fiducia era in Lui, l’aveva dovuto accogliere di nuovo in grembo alla morte ai piedi della croce.

Quanto avrà pensato a quel dolcissimo bambino, ma da lei protetto e ora indifeso a del tutto offerto.

Come le sono risuonate nel cuore le parole del vecchio Simeone: una spada trafiggerà il tuo capo.

Ma la tre giorni più decisiva della storia era scritta nel suo cuore di madre fin da Betlemme, la perdita e il ritrovamento di Gesù a Gerusalemme nel tempio glielo ha ricordato e scritto nei sentimenti, nell’apprensione, nell’anima. 

Ma noi abbiamo la possibilità di vedere quella carezza delicatissima di Gesù il bambino a sua madre, carezza che segna la nostra fede, che vorremmo sentirci sulla nostra vita spesso dispersiva e disperata.

Madre del Buon Consiglio che hai fatto sentire da 650 anni la carezza di Gesù ai padri seguaci di S, Agostino, falla sentire anche a noi, fa che la sua manina benedetta si posi sulle nostre vite e sulle nostre istituzioni, sulle nostre famiglie e sui nostri governi, sul nostro Papa e sui nostri preti, sui giovani e sui malati, su tutti. 

+Domenico

26 Dicembre: Il bianco del Natale, della festa si tinge di rosso

Una riflessione sul Vangelo di Matteo (Mt 10,17-22)

Le feste durano poco, perché sono solo dei segni collocati nella nostra esistenza per darle aperture di infinito, momenti di gioia, di gratuità, di comunione per poter affrontare con determinazione la vita quotidiana.

Le feste sono infusioni di coraggio, finestre aperte sul senso dei nostri giorni, per poterlo sempre avere nel cuore, e determinare i nostri atteggiamenti.

Già il giorno dopo Natale, ci viene posta  davanti la durezza della vita, ci vengono buttati in faccia i colpi di ribellione del principe del male.

Il bianco del natale, i sentimenti e le emozioni si tingono di rosso: è il colore del sangue.  

Gli Atti degli apostoli ci raccontano di un giovane che cade sotto i colpi di una lapidazione: sibilano nell’aria i sassi della cattiveria umana, la lotta disperata del male, che non vuol lasciare il posto al nuovo che sorge.

La scena è tragica: Un giovane pieno di vita, di ardore, di fuoco che annuncia la nuova vita in Gesù da una parte e dall’altra la ribellione, la rabbia, il rifiuto, l’attaccamento al proprio mondo, il non lasciarsi trasformare.

Il cuore si trasforma in pietra e la pietra è lanciata sulla vita fragile di Stefano.  

Aveva detto Simeone, quel vecchio che aveva accolto nel tempio Gesù, che questo bambino sarebbe stato un segno di contraddizione, avrebbe diviso la storia in due, perché con lui è cominciato il tempo definitivo della vita del mondo, ma avrebbe anche fatto chiarezza nel cuore degli uomini: Chi lo segue sa che avrà da avere coraggio.  

Il presepio si smonta presto, sotto ci resta una vita piena, gioiosa, bella, ma dura e da affrontare con coraggio.

All’uomo non fa difficoltà vivere per un ideale: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi… sarete odiati a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato”.

Così è la vita dei testimoni del vangelo.

Così è stato san Lorenzo, così san Sebastiano, così tutti gli apostoli, molti santi protettori delle nostre parrocchie: tutti giovani decisi per un ideale, per la vera vita, senza paura. 

Hanno accolto Gesù con un cuore che ama, e nelle loro vite si è sprigionata forza impensabile.

Non si sono smarriti nelle prove della vita, non si sono sentiti soli o abbandonati. 

Potevano contare su Gesù, una presenza intima, forte, sicura. una difesa attiva: “io sarò spirito di fortezza dentro di voi. La vostra bocca esprimerà una sapienza irresistibile, capace di vincere il male.”

Gesù crocifisso, pure contemplato indifeso, mobilita una forza impensabile nella nostra vita: È la forza non della disperazione, ma della speranza. 

Stefano ha dovuto sopportare la morte per lapidazione: una esecuzione efferata entro uno scatenamento collettivo di odio, di vendetta, di cattiveria sobillata, istintiva, disumana. 

“Il fratello darà a morte il fratello ed il padre il figlio…”: Tremende le parole del vangelo.

Quelle pietre che lo hanno ammazzato si portavano dentro l’odio, la cecità, la bestemmia verso un Dio che aveva scelto di farsi uomo, di venire al mondo messia, fuori dagli schemi comodi di chi lo aspettava. 

Tutto questo c’è ancora oggi: è la supponenza culturale che crede che la fede sia una debolezza, una concessione fragile a sentimenti tradizionali, che hanno valore forse la notte di Natale e niente più.

Sì, la fede ti fa vivere dei bei momenti; se il Natale non ci fosse occorrerebbe inventarlo…

… Infatti lo stanno proprio inventando diverso, perché il vero Natale non serve più: è meglio un albero, disegni di luci, un marketing appropriato, è la festa che conta, non il festeggiato.

E di fatto siamo impazziti, ci siamo dovuti fare code interminabili in automobile per la festa, non certo per incontrare il festeggiato. 

Ma la vita è un’altra, le cose serie sono altre; se devo impostare il mio futuro ho bisogno di ragione, di scienza, di economia.

E’ necessario ancora oggi un Salvatore? Se l’è domandato anche Stefano.

Abbiamo bisogno di Gesù, dopo tutto quel poderoso impianto religioso che il popolo di Israele metteva a disposizione per i rapporti con Dio? Se c’era un mondo religioso fin nel midollo era quello ebraico; se c’è un mondo evoluto è proprio il nostro. 

A questa domanda dobbiamo rispondere: sì, abbiamo bisogno di Dio.

Diceva un giovane romanziere: … il mio segreto è che ho bisogno di Dio, che sono stufo marcio e non ce la faccio più ad andare avanti da solo: Ho bisogno di Dio, per aiutarmi a donare, perché sembro diventato incapace di generosità; per aiutarmi a essere gentile, perché sembro ormai incapace di gentilezza; per aiutarmi ad amare, perché sembro aver oltrepassato lo stadio in cui si è capaci di amare..”  

Scegliere Gesù non sarà senza costi: “E sarete odiati da tutti a causa del mio nome”.

Il cristianesimo non è un invito alla vita tranquilla, ma sempre un coinvolgimento impegnativo.

Noi però oggi non siamo odiati o guardati con supponenza, perché siamo troppo cristiani, ma forse perché non lo siamo fino in fondo.

Se vivessimo veramente per lui, Lui all’appuntamento con la nostra decisione radicale di seguirlo si darebbe certamente a vedere.

Ci ha sempre detto di non preoccuparci, di affidarci a Lui: Potremo sperimentare una vera difficoltà, ma non saremo mai abbandonati da Dio. 

La nostra terra è spaesata, vede ogni giorno crescere la violenza, affermarsi ancora il male, ma sarà sempre e solo un colpo di coda di una belva che muore, perché il cielo non è vuoto, Stefano lo vede aperto e  non gli interessano i colpi della morte e il livore dei lapidatori, li perdona, e vede Dio che gli spalanca le braccia per sempre. 

25 Dicembre – Natale : Non viviamo in un mondo senza senso … il senso si è fatto carne!

Oggi ci facciamo … tutti uguali davanti a un richiamo più forte di noi, scritto dentro le nostre vite da tradizioni, culture, parole, da gesti semplici di papà e mamma, di nonni, preti, pazienti catechisti, maestri … che ci hanno insegnato che nella vita abbiamo bisogno di credere in qualcosa per vivere. 

Questo qualcosa è qualcuno, che si chiama Gesù

A monte di queste nostre tradizioni ci sta una storia brutta, come una deflagrazione distruttiva, entro le domande grosse della vita.

Da dove vengo, dove vado, perché il dolore, perché il male, la cattiveria, la morte, perché l’ingiustizia, perché le nostre vite vengono falciate da un cieco destino? 

Esiste un destino dal cuore di pietra? 

Perchè ho perso il mio miglior amico, perché ho avuto cuore così duro da lasciarlo solo al suo destino? 

E ritorna la parola destino, tra le più brutte che un cristiano può dire

Non c’è nessun destino, non c’è nessuna disgrazia: C’è all’inizio un progetto di mondo bello.

Dio ha creato cielo e terra, ha fatto cose meravigliose,  un mondo come un orologio perfetto: bello, preciso, giusto, vero, ben disegnato.

Ma dentro mancava la vita. E Dio disse: “ci metto come re, l’uomo, lo faccio così bene che mi rassomigli. Non voglio che il mondo sia governato da una macchina, voglio che sia la gioia e la soddisfazione di un uomo libero. Questo uomo e questa donna li faccio belli, puliti, entusiasti. Devono avere la possibilità di decidersi sempre per il meglio, non avere tarli interiori che li possono indebolire o ingannare.”

Adamo ed Eva erano felici.

Ci state, dice Dio, a rendere sempre più bello con il vostro ingegno, la vostra fantasia questo mondo, questo universo?  Volete dare vita a una umanità sana, intelligente, orgogliosa di assomigliare a Dio? 

La risposta è un no solenne.

Bastiamo a noi stessi, tu Dio non c’entri niente. Dovevi pensarci prima.

Avresti potuto sapere che rischiavi grosso.

Questo mondo ce lo prendiamo in mano noi. Tu non c’entri più.  

E l’abbiamo fatto a nostra immagine, gli abbiamo scritto dentro le nostre cattiverie, le nostre disperazioni, i nostri incubi: E comincia la storia del dolore, della violenza, della guerra, della ingiustizia.

Al catechismo lo abbiamo imparato come il peccato originale, ci siamo messi in testa una mela e non ce la leva nessuno dalla memoria.

La mela è questo no. 

Ma Dio non demorde, non si adatta al fallimento del suo progetto, vede che nel fondo dell’uomo c’è un grido di aiuto, una invocazione di speranza e fa un altro tentativo.

Vuol farsi uomo per salvare dall’interno l’umanità e rischia un’altra volta.  

Stavolta va da una giovane ragazzina di Nazaret.

Una ragazza pulita, senza malizia, come era Eva del resto e rischia ancora la stessa domanda: “Vuoi ridare a questo mondo la bellezza primitiva, vuoi darmi una mano a rifare il mondo? Vuoi essere la madre di mio figlio?”

La ragazza dice sì! Accetto!

Quel poco che sono lo metto a disposizione, so che tu abbatti i potenti, rimandi i ricchi a mani vuote, ascolti il povero … Ebbene sì, la mia vita prendila tutta, mi fido, mi sento di allargare il mio progetto di vita al tuo grande sogno. 

E nasce Gesù: Dio stavolta ha rischiato e ce l’ha fatta. 

Da quel giorno il mondo è diverso, ha inscritto una forza che lo salva, lo cambia radicalmente, lo libera dalla schiavitù del male.

Il male resta sempre forte, ma ha scritto nel suo DNA la parola fine.

Il serpente della visone biblica si sente sul capo il piede di una donna che lo schiaccia.  

Ora tocca a noi entrare in questo nuovo modo di pensare e di vivere: Natale è il riscatto dell’umanità, è la vittoria sull’antica maledizione, è la sorpresa di un bene infinito accanto a un male gradissimo, ma che sicuramente si può vincere. 

Questo diciamo, sentendo quel solenne “Il verbo si è fatto carne”. 

Lui è il primo uomo nuovo di una creazione nuova che deve ogni giorno fare il suo cammino tra tutte le difficoltà che il male scatena.  

Noi facciamo parte di questa storia. Entro questa storia si sono costruite le nostre cattedrali, sono cresciute le nostre speranze. 

Non viviamo in un mondo senza senso. Il senso si è fatto carne

Non siamo abbandonati, ma siamo sempre di qualcuno, siamo di Dio.

Con questo secondo rischio, Dio ha visto che l’umanità si è convertita a lui, in attesa che tutti lo facciano per sé e per la propria vita. 

Quando siamo cattivi, quando buttiamo via la nostra vita e mettiamo in pericolo quella degli altri, vuol dire che non abbiamo preso sul serio il Natale, l’abbiamo abbassato a festa, o solo a sentimenti di occasione.  

Noi però oggi siamo qui e vogliamo dire a Dio che ci piace stare in questa storia affascinante, ma abbiamo bisogno di sapere che contemplare suo figlio nel presepe, ce lo permette di sperimentare nella vita quotidiana, nelle nostre sofferenze e soddisfazioni, nelle incertezze per il nostro futuro, nel nostro lavoro che mai come di questi tempi diventa un’ancora cui appendere speranze e avere certezze.  

E vogliamo dargli una mano a rendere più bello il mondo, senza caricarlo delle nostre sconfitte in umanità.  

+Domenico

24 Dicembre: Con Zaccaria scoppiamo di verità e di gioia

Luca 1,76: <<76 E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell`Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade.>>

Quando ti capitano fatti gravi o importanti nella vita resti per un po’ di tempo incapace di comprendere, di parlare, di reagire.

Ti assale dolore, stupore, sorpresa, meraviglia … e … vai a cercare dentro di te una ragione, ti fai mille pensieri, costruisci congetture, ma … non è che te ne raccapezzi facilmente.

Poi finalmente ti scoppia dentro la chiave, la sintesi, la percezione del tutto, la bellezza o la chiarezza della tua situazione.  

Ecco … il vecchio prete del tempio, Zaccaria, aveva pensato a lungo quello che gli era capitato nel tempio, quel giorno che si sentì dire che nella sua vecchiaia sarebbe diventato padre.

Ora, dopo nove mesi di silenzio forzato ,esplode in un canto che guida ancora oggi l’inizio delle nostre giornate.  

O Dio sii benedetto, sii pieno del mio atto di lode; grazie che mi hai fatto vincere tutti i miei insensati dubbi e ora mi fai vedere e toccare con mano che tu non ci lasci soli, che tu il tuo popolo lo segui con cura e non lo lasci nella solitudine delle sue disperazioni e nelle sue paure.

Ci hai sempre fatto percepire che non ci avresti abbandonato, ma ora la tua salvezza è palpabile.

I tuoi giuramenti non erano calmanti e placebo, le tue promesse non erano lacci per controllarci; io sono un poveraccio, ma ho capito quanto tu sei grande, quanto sei fedele, come da sempre mi hai amato e ora dimostri il tuo amore con una visita.  

Questo bambino che io non aspettavo, questo figlio che mi ha messo in cuore dubbi atroci sulla tua potenza, è tuo profeta.

Io, suo padre, non sto alla sua altezza, non ho il suo santo timore di te, non sono così pieno di santità e giustizia, di servizio.

Sono contento che lo hai chiamato per stare davanti a tuo figlio, a preparargli la strada.

E’ l’aurora del sole che sei tu, è l’alba di un nuovo giorno, illuminato definitivamente dalla tua bontà, dalla tua misericordia.

Tu sei il sole che lo illuminerà per sempre, tu strapperai dagli inferi i morti senza speranza, tu ci permetterai finalmente di percorrere sentieri di pace.

Le ombre della nostra vita, le ombre di morte che ci opprimono, non resistono a questa irruenza del tuo figlio nella nostra quotidianità. 

Signore sii benedetto, ora è scoppiata dentro di me la certezza che tu non ci abbandoni mai.  

23 Dicembre: Dio fa scoppiare il futuro, non clona il passato!

Luca 1,63-64: <<63 Egli chiese una tavoletta, e scrisse: “Giovanni è il suo nome”. Tutti furono meravigliati. 64 In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.>> 

Quando vivi degli avvenimenti intensi sembra che il tempo si fermi: l’attesa si fa spasmodica, conti i giorni … le ore … i minuti … poi ti guardi un attimo indietro e vedi che il tempo è passato, che gli avvenimenti procedono con una certa inesorabilità.

La vita che è iniziata si radica,  continua, ha i suoi ritmi che paiono lenti, ma che procedono … però … inesorabili.

E così avvenne anche per Elisabetta: la sorpresa, la vergogna di vedersi incinta alla sua età, la consolazione di avere Maria a farle compagnia, il grande evento che in Lei si sta compiendo …  

Tutto continua e nessuno più ferma la nuova storia, e viene il giorno in cui questo Giovanni nasce: le meraviglie, le incredulità, la sorpresa che pure ciascuno viveva nella sua interiorità prendono fuoco, perché ora Giovanni è lì, il suo pianto è vero, il suo corpo se lo coccola sua madre, se lo mangiano con gli occhi tutti!

Zaccaria è muto, è un padre ancora senza parole, gli ripassa nella mente tutta la sequenza del Tempio, della promessa, tutte le attenzioni di questi nove mesi.

Elisabetta si fa aiutare … Maria dopo tre mesi ritorna a casa sua.

Ora la storia di Dio continua in Lei, anch’essa ha bisogno di rientrare nella sua intimità a custodire il futuro dell’umanità.  

Il bambino di Elisabetta è nato e arriva anche il giorno della Legge, il giorno della circoncisione: Questo figlio fa parte di un popolo, non nasce in un deserto di relazioni e di storia, è dentro un nobile casato sia per parte di Zaccaria che di Elisabetta.

Di nomi da ereditare ne ha tanti e tutti nobili, tutti capaci di rievocare gesta, ruoli elevati, funzioni eminenti: A cominciare dai capostipiti, Abia per Zaccaria e Aronne per Elisabetta.

Ma il bambino è destinato a far scoppiare il futuro, non a clonare il passato.  

“Chiedevano con cenni a suo padre”… i muti ora sono tutti, come si fa di solito con chi non parla, con chi deve esprimersi a cenni.

Pensano forse che Zaccaria sia sordo e lo seppelliscono nell’isolamento, lo privano di qualsiasi normalità …

… e Zaccaria esprime ancora per l’ultima volta la sua tensione di non essere capace di dire e scrive: Giovanni sarà il suo nome.

Lui deve annunciare la novità assoluta, definitiva per l’umanità: non sarà cultore del tempio, non si metterà in fila come tutti a ripetere un passato anche glorioso, non farà come suo padre i turni settimanali dell’offerta dell’incenso, intuirà invece e indicherà con forza la venuta del Salvatore, brucerà di ardore per l’attesa del compimento. 

Zaccaria torna a parlare, e la gente, noi, a riflettere; a domandarci:
ma Dio che vuole da noi?
Che vuole da noi Lui, che non ci abbandona mai? 

22 Dicembre (Quarta Domenica di Avvento): San Giuseppe, colui che si prende cura

Matteo 1, 18-24: <<Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
>>

Anche Dio voleva un figlio, voleva che la bella e drammatica vita umana potesse essere vissuta nella grandezza della Trinità, amava tanto l’uomo che non si poteva più accontentare di mandare angeli o di incaricare profeti per dir loro il suo amore appassionato.

Ma Dio non accampa diritti, il suo desiderio di avere un Figlio passa nelle trame delicate dell’amore.  

All’inizio è l’amore trinitario. “Chi manderò io e chi andrà per noi”? E’ la domanda che apre nell’amore assoluto di Dio una risposta di generosità infinita: “Eccomi manda me”, dice il figlio, disponendosi a diventare uomo, desiderando mostrare all’uomo la bontà immensa del Padre, la sua delicatezza infinita per l’umanità, la sua attesa di un compimento della creazione, bloccata dal peccato.

Nella risposta del Figlio comincia a risuonare quell’abbà, papà, che caratterizzerà la vita di Gesù.  

Ma l’amore di Dio ha ancora un altro delicato percorso da fare: Avrebbe a disposizione tutto il creato per realizzare i suoi piani, ma vuol avere bisogno di una madre e si mette nelle mani di una ragazza ebrea.  

Pensata da sempre, pura da sempre, ombra di peccato non ha, non sta invischiata nella fila del contagio del male.

Dio l’ha nella sua mente da sempre, ma l’ha pensata libera: ha la bellezza di un diamante, ma è viva; ha lo splendore di un capolavoro, ma non è una statua, è una persona.

E Dio di fronte alla libertà della persona umana ha un imperativo assoluto: non la tocca, non la toglie, non la riduce, ma la esalta sempre.

Questo grande rispetto della libertà dell’uomo gli costerà la passione e la morte di Gesù, gli costa ogni giorno il cumulo di sofferenze degli uomini, gli odi, le guerre, i terrorismi, le ritorsioni, il male nella sua oscurità.  

Ebbene Dio manda un angelo a Maria: “và e chiedile la libertà massima di diventare Madre di Gesù”. 

E lei dice: eccomi, , con tutta la mia vita. 

E a Giuseppe, lo sposo di Maria, chiede l’impossibile, ma glielo chiede: “Giuseppe, non temere, è da sempre che sto pensando alla tua onestà, alla tua giustizia, alla tua grinta, al dolcissimo amore che ti lega a Maria. Mi hai affascinato e mi ha affascinato la tua delicatissima relazione con Maria. In questo vostro amore meraviglioso, noi, la Trinità, vogliamo deporre Gesù, il Figlio di Dio. Quel bambino è la Parola, che era fin dal principio, è il nostro essere persona umana.” 

Ogni amore umano tra uomo e donna chiama in causa l’amore di Dio, ne è una degna, ma velata immagine. 

E’ Dio che si dà a vedere nell’intensità di amore tra i due.

Per Giuseppe e Maria in questo amore non c’è solo l’immagine, ma compare proprio Lui, la sorgente dell’amore, il suo senso, la completezza, la pienezza … compare proprio Gesù.  

Quel bambino di gesso che depositeremo nel presepio è solo il simbolo di questa storia infinita di amore, questo intreccio di volontà e di attese, di dialoghi e di accoglienza.

… e la nostra vita umana, tutta la nostra biotecnologia, ha continuamente da misurarsi sull’amore, se vuol continuare ad essere vita.