Domenico Sigalini (Dello, 7 giugno 1942) è un vescovo e giornalista italiano, Vescovo emerito della sede suburbicaria di Palestrina.
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Una riflessione sul vangelo secondo Matteo (Mt 2, 16-18)
Il mistero del dolore innocente è, per tutti credenti e non, uno scandalo.
Dio stesso, è rimasto come spiazzato di fronte alla malvagità e cattiveria che l’uomo da lui creato è riuscito a inventare.
La storia dell’umanità è storia di grandi conquiste, di maturazione verso il bene, ma contemporaneamente è la storia dell’intelligenza applicata al male, del male gratuito, dello sfogo iniziale, immotivato, della barbarie sempre più sofisticata.
Uomini fugaci nell’amore e tenaci nell’odio.
Di fronte a questo fatto c’è il silenzio di Dio il dolore innocente si infrange contro un cielo di cristallo, freddo e indifferente.
R. Gualdrini sul letto di morte ebbe a dire: nel giorno del giudizio dovrò rispondere alle tante domande che Dio mi farà, ma ne avrò anch’io un paio da fargli: perché la sofferenza degli innocenti?
Perché non riusciamo a trovare una spiegazione al dolore?
Credo che una continua preghiera che possiamo fare a Dio sia proprio quella che in diverse forme ci viene dalla Bibbia: Fino a quando Signore mi nasconderai il tuo volto?
Dio mio perchè mi hai abbandonato!? Perché mi respingi?
Maledetto il giorno in cui nacqui…mia madre poteva ben essere la mia tomba!
Signore distogli il tuo sguardo, così che io respiri un istante. Dice Giobbe nel colmo della sua disperazione.
Risale al 2200 a.C. il dialogo con la sua anima di un suicida: la morte è davanti a me come la guarigione per un malato come l’ombra nella oasi del deserto, come il profumo della delle ore dell’alba.
Anche Giobbe per non poche volte impreca, maledice, bestemmia descrive Dio come un arciere sadico che gli trafigge per divertimento, reni, fegato, cuore.
Il dolore e il male sono una tomba. Sono una componente della nostra vita di fronte al quale non si devono cercare pezze, soluzioni di bassa lega volte solo a esorcizzare, a non fare i conti.
Bisogna passarci dentro: rispettare chi ci soffre, rispettare il momento in cui si soffre e sopportarlo con pazienza.
Spesso non c’è ora di adorazione che tenga.
Giobbe sopportò tutto: ha perso la pazienza solo quando sono arrivati i suoi amici a consolarlo.
La ricerca della consolazione è il rifiuto del limite, è segno di onnipotenza, è non volere toccare il fondo.
Solo se sapremo toccare il fondo della nostra povertà, solo allora avremo in dono la Resurrezione, la speranza. Invece stiamo a perdere tempo a ingannarci con piccole consolazioni che polverizzano la nostra dignità umana.
Le ultime parole di Gesù sono state il grido di una disperazione umana lanciata nelle braccia di un padre.
Quel grido è stata la prova per la fede dei presenti.
È il pianto di Rachele.
È il vuoto assoluto che può essere riempito solo da Dio.
Una riflessione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,2-8)
I giovani corrono, i giovani sono scattanti, i giovani si entusiasmano subito, bruciano le tappe, i giovani vogliono spremere il massimo dalla vita, i giovani sono impazienti di sapere e di vedere, di provare e di scoprire.
Gli adulti invece sono calmi, sono riflessivi, le hanno già provate tutte e procedono con cautela, non abboccano al primo che parla; Gli adulti sono lenti, spesso smorzano tutto, soppesano tutto, ma sanno dare ancora consigli saggi.
Erano un giovane e un adulto quei due che la mattina di quel famoso primo giorno dopo il sabato si sono incamminati correndo verso un posto già visto per Giovanni, un luogo nuovo per Pietro; il posto era il Golgota nei pressi del quale c’era il sepolcro nuovo in cui era stato ricomposto in fretta il cadavere di Gesù.
Hanno udito notizie sorprendenti, vociare di donne, correre di informazioni, meraviglie, domande, esclamazioni, dubbi.
Nella tomba non c’è più.
Siamo andate di buon mattino perché volevamo imbalsamarlo, ma là il corpo non c’è più.
Erano Giovanni il giovane, quello che aveva assistito fino all’ultimo momento, all’ultimo spasimo, Gesù che moriva, per sostenere sua madre e Pietro, quello che aveva dato il colpo di grazia del tradimento a Gesù, quello che, mentre Gesù veniva sbeffeggiato e insultato da tutti, non aveva avuto il coraggio di stare dalla sua parte.
Due vite incantate da Gesù, due apostoli, due storie si rimettono in corsa col cuore in gola per poter sperare ancora, per potersi dire che non è vero che tutto è finito, per farsi sorprendere dalla potenza di Dio.
Giovanni è giovane, è innamorato perso e corre di più; Pietro è adulto, si porta dentro anche il peso del tradimento e arranca.
Giovanni lo precede, arriva prima, ma si ferma davanti al sepolcro, aspetta Pietro.
Il giovane è entusiasta, è veloce, ma sa di avere bisogno della saggezza di Pietro.
È sempre così anche nella vita: giovani e adulti stanno bene insieme, hanno bisogno gli uni degli altri.
La scoperta che assieme fanno è di grande importanza: sarà determinante per i secoli futuri.
Anche loro constatano che Gesù non c’è più, il suo corpo che Giovanni aveva visto esalare l’ultimo respiro non c’è più. E descrivono il lenzuolo, la sindone, le bende che avevano hanno avvolto Gesù afflosciate su di sé, come se da sotto ne fosse sparito il corpo.
Il Natale che abbiamo appena festeggiato già ci rimanda alla Pasqua: Quel bambino che abbiamo contemplato nella sua nascita è quel Gesù che sarebbe stato ucciso, ma che avrebbe vinto la morte con la risurrezione, dando al mondo una speranza definitiva.
Ci viene facile pensare a Maria che quei momenti iniziali della vita di Gesù ha vissuto con grande intensità, portandosi dentro tutta la decisione di star fedele a suo figlio fino alla morte.
A quella corsa dei due apostoli Maria partecipava col cuore in gola, era stata tutta per il Signore, la sua fiducia era in Lui, l’aveva dovuto accogliere di nuovo in grembo alla morte ai piedi della croce.
Quanto avrà pensato a quel dolcissimo bambino, ma da lei protetto e ora indifeso a del tutto offerto.
Come le sono risuonate nel cuore le parole del vecchio Simeone: una spada trafiggerà il tuo capo.
Ma la tre giorni più decisiva della storia era scritta nel suo cuore di madre fin da Betlemme, la perdita e il ritrovamento di Gesù a Gerusalemme nel tempio glielo ha ricordato e scritto nei sentimenti, nell’apprensione, nell’anima.
Ma noi abbiamo la possibilità di vedere quella carezza delicatissima di Gesù il bambino a sua madre, carezza che segna la nostra fede, che vorremmo sentirci sulla nostra vita spesso dispersiva e disperata.
Madre del Buon Consiglio che hai fatto sentire da 650 anni la carezza di Gesù ai padri seguaci di S, Agostino, falla sentire anche a noi, fa che la sua manina benedetta si posi sulle nostre vite e sulle nostre istituzioni, sulle nostre famiglie e sui nostri governi, sul nostro Papa e sui nostri preti, sui giovani e sui malati, su tutti.
Una riflessione sul Vangelo di Matteo (Mt 10,17-22)
Le feste durano poco, perché sono solo dei segni collocati nella nostra esistenza per darle aperture di infinito, momenti di gioia, di gratuità, di comunione per poter affrontare con determinazione la vita quotidiana.
Le feste sono infusioni di coraggio, finestre aperte sul senso dei nostri giorni, per poterlo sempre avere nel cuore, e determinare i nostri atteggiamenti.
Già il giorno dopo Natale, ci viene posta davanti la durezza della vita, ci vengono buttati in faccia i colpi di ribellione del principe del male.
Il bianco del natale, i sentimenti e le emozioni si tingono di rosso: è il colore del sangue.
Gli Atti degli apostoli ci raccontano di un giovane che cade sotto i colpi di una lapidazione: sibilano nell’aria i sassi della cattiveria umana, la lotta disperata del male, che non vuol lasciare il posto al nuovo che sorge.
La scena è tragica: Un giovane pieno di vita, di ardore, di fuoco che annuncia la nuova vita in Gesù da una parte e dall’altra la ribellione, la rabbia, il rifiuto, l’attaccamento al proprio mondo, il non lasciarsi trasformare.
Il cuore si trasforma in pietra e la pietra è lanciata sulla vita fragile di Stefano.
Aveva detto Simeone, quel vecchio che aveva accolto nel tempio Gesù, che questo bambino sarebbe stato un segno di contraddizione, avrebbe diviso la storia in due, perché con lui è cominciato il tempo definitivo della vita del mondo, ma avrebbe anche fatto chiarezza nel cuore degli uomini: Chi lo segue sa che avrà da avere coraggio.
Il presepio si smonta presto, sotto ci resta una vita piena, gioiosa, bella, ma dura e da affrontare con coraggio.
All’uomo non fa difficoltà vivere per un ideale: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi… sarete odiati a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato”.
Così è la vita dei testimoni del vangelo.
Così è stato san Lorenzo, così san Sebastiano, così tutti gli apostoli, molti santi protettori delle nostre parrocchie: tutti giovani decisi per un ideale, per la vera vita, senza paura.
Hanno accolto Gesù con un cuore che ama, e nelle loro vite si è sprigionata forza impensabile.
Non si sono smarriti nelle prove della vita, non si sono sentiti soli o abbandonati.
Potevano contare su Gesù, una presenza intima, forte, sicura. una difesa attiva: “io sarò spirito di fortezza dentro di voi. La vostra bocca esprimerà una sapienza irresistibile, capace di vincere il male.”
Gesù crocifisso, pure contemplato indifeso, mobilita una forza impensabile nella nostra vita: È la forza non della disperazione, ma della speranza.
Stefano ha dovuto sopportare la morte per lapidazione: una esecuzione efferata entro uno scatenamento collettivo di odio, di vendetta, di cattiveria sobillata, istintiva, disumana.
“Il fratello darà a morte il fratello ed il padre il figlio…”: Tremende le parole del vangelo.
Quelle pietre che lo hanno ammazzato si portavano dentro l’odio, la cecità, la bestemmia verso un Dio che aveva scelto di farsi uomo, di venire al mondo messia, fuori dagli schemi comodi di chi lo aspettava.
Tutto questo c’è ancora oggi: è la supponenza culturale che crede che la fede sia una debolezza, una concessione fragile a sentimenti tradizionali, che hanno valore forse la notte di Natale e niente più.
Sì, la fede ti fa vivere dei bei momenti; se il Natale non ci fosse occorrerebbe inventarlo…
… Infatti lo stanno proprio inventando diverso, perché il vero Natale non serve più: è meglio un albero, disegni di luci, un marketing appropriato, è la festa che conta, non il festeggiato.
E di fatto siamo impazziti, ci siamo dovuti fare code interminabili in automobile per la festa, non certo per incontrare il festeggiato.
Ma la vita è un’altra, le cose serie sono altre; se devo impostare il mio futuro ho bisogno di ragione, di scienza, di economia.
E’ necessario ancora oggi un Salvatore? Se l’è domandato anche Stefano.
Abbiamo bisogno di Gesù, dopo tutto quel poderoso impianto religioso che il popolo di Israele metteva a disposizione per i rapporti con Dio? Se c’era un mondo religioso fin nel midollo era quello ebraico; se c’è un mondo evoluto è proprio il nostro.
A questa domanda dobbiamo rispondere: sì, abbiamo bisogno di Dio.
Diceva un giovane romanziere: … il mio segreto è che ho bisogno di Dio, che sono stufo marcio e non ce la faccio più ad andare avanti da solo: Ho bisogno di Dio, per aiutarmi a donare, perché sembro diventato incapace di generosità; per aiutarmi a essere gentile, perché sembro ormai incapace di gentilezza; per aiutarmi ad amare, perché sembro aver oltrepassato lo stadio in cui si è capaci di amare..”
Scegliere Gesù non sarà senza costi: “E sarete odiati da tutti a causa del mio nome”.
Il cristianesimo non è un invito alla vita tranquilla, ma sempre un coinvolgimento impegnativo.
Noi però oggi non siamo odiati o guardati con supponenza, perché siamo troppo cristiani, ma forse perché non lo siamo fino in fondo.
Se vivessimo veramente per lui, Lui all’appuntamento con la nostra decisione radicale di seguirlo si darebbe certamente a vedere.
Ci ha sempre detto di non preoccuparci, di affidarci a Lui: Potremo sperimentare una vera difficoltà, ma non saremo mai abbandonati da Dio.
La nostra terra è spaesata, vede ogni giorno crescere la violenza, affermarsi ancora il male, ma sarà sempre e solo un colpo di coda di una belva che muore, perché il cielo non è vuoto, Stefano lo vede aperto e non gli interessano i colpi della morte e il livore dei lapidatori, li perdona, e vede Dio che gli spalanca le braccia per sempre.
Oggi ci facciamo … tutti uguali davanti a un richiamo più forte di noi, scritto dentro le nostre vite da tradizioni, culture, parole, da gesti semplici di papà e mamma, di nonni, preti, pazienti catechisti, maestri … che ci hanno insegnato che nella vita abbiamo bisogno di credere in qualcosa per vivere.
Questo qualcosa è qualcuno, che si chiama Gesù.
A monte di queste nostre tradizioni ci sta una storia brutta, come una deflagrazione distruttiva, entro le domande grosse della vita.
Da dove vengo, dove vado, perché il dolore, perché il male, la cattiveria, la morte, perché l’ingiustizia, perché le nostre vite vengono falciate da un cieco destino?
Esiste un destino dal cuore di pietra?
Perchè ho perso il mio miglior amico, perché ho avuto cuore così duro da lasciarlo solo al suo destino?
E ritorna la parola destino, tra le più brutte che un cristiano può dire.
Non c’è nessun destino, non c’è nessuna disgrazia: C’è all’inizio un progetto di mondo bello.
Dio ha creato cielo e terra, ha fatto cose meravigliose, un mondo come un orologio perfetto: bello, preciso, giusto, vero, ben disegnato.
Ma dentro mancava la vita. E Dio disse: “ci metto come re, l’uomo, lo faccio così bene che mi rassomigli. Non voglio che il mondo sia governato da una macchina, voglio che sia la gioia e la soddisfazione di un uomo libero. Questo uomo e questa donna li faccio belli, puliti, entusiasti. Devono avere la possibilità di decidersi sempre per il meglio, non avere tarli interiori che li possono indebolire o ingannare.”
Adamo ed Eva erano felici.
Ci state, dice Dio, a rendere sempre più bello con il vostro ingegno, la vostra fantasia questo mondo, questo universo? Volete dare vita a una umanità sana, intelligente, orgogliosa di assomigliare a Dio?
La risposta è un no solenne.
Bastiamo a noi stessi, tu Dio non c’entri niente. Dovevi pensarci prima.
Avresti potuto sapere che rischiavi grosso.
Questo mondo ce lo prendiamo in mano noi. Tu non c’entri più.
E l’abbiamo fatto a nostra immagine, gli abbiamo scritto dentro le nostre cattiverie, le nostre disperazioni, i nostri incubi: E comincia la storia del dolore, della violenza, della guerra, della ingiustizia.
Al catechismo lo abbiamo imparato come il peccato originale, ci siamo messi in testa una mela e non ce la leva nessuno dalla memoria.
La mela è questo no.
Ma Dio non demorde, non si adatta al fallimento del suo progetto, vede che nel fondo dell’uomo c’è un grido di aiuto, una invocazione di speranza e fa un altro tentativo.
Vuol farsi uomo per salvare dall’interno l’umanità e rischia un’altra volta.
Stavolta va da una giovane ragazzina di Nazaret.
Una ragazza pulita, senza malizia, come era Eva del resto e rischia ancora la stessa domanda: “Vuoi ridare a questo mondo la bellezza primitiva, vuoi darmi una mano a rifare il mondo? Vuoi essere la madre di mio figlio?”
La ragazza dice sì! Accetto!
Quel poco che sono lo metto a disposizione, so che tu abbatti i potenti, rimandi i ricchi a mani vuote, ascolti il povero … Ebbene sì, la mia vita prendila tutta, mi fido, mi sento di allargare il mio progetto di vita al tuo grande sogno.
E nasce Gesù: Dio stavolta ha rischiato e ce l’ha fatta.
Da quel giorno il mondo è diverso, ha inscritto una forza che lo salva, lo cambia radicalmente, lo libera dalla schiavitù del male.
Il male resta sempre forte, ma ha scritto nel suo DNA la parola fine.
Il serpente della visone biblica si sente sul capo il piede di una donna che lo schiaccia.
Ora tocca a noi entrare in questo nuovo modo di pensare e di vivere: Natale è il riscatto dell’umanità, è la vittoria sull’antica maledizione, è la sorpresa di un bene infinito accanto a un male gradissimo, ma che sicuramente si può vincere.
Questo diciamo, sentendo quel solenne “Il verbo si è fatto carne”.
Lui è il primo uomo nuovo di una creazione nuova che deve ogni giorno fare il suo cammino tra tutte le difficoltà che il male scatena.
Noi facciamo parte di questa storia. Entro questa storia si sono costruite le nostre cattedrali, sono cresciute le nostre speranze.
Non viviamo in un mondo senza senso. Il senso si è fatto carne.
Non siamo abbandonati, ma siamo sempre di qualcuno, siamo di Dio.
Con questo secondo rischio, Dio ha visto che l’umanità si è convertita a lui, in attesa che tutti lo facciano per sé e per la propria vita.
Quando siamo cattivi, quando buttiamo via la nostra vita e mettiamo in pericolo quella degli altri, vuol dire che non abbiamo preso sul serio il Natale, l’abbiamo abbassato a festa, o solo a sentimenti di occasione.
Noi però oggi siamo qui e vogliamo dire a Dio che ci piace stare in questa storia affascinante, ma abbiamo bisogno di sapere che contemplare suo figlio nel presepe, ce lo permette di sperimentare nella vita quotidiana, nelle nostre sofferenze e soddisfazioni, nelle incertezze per il nostro futuro, nel nostro lavoro che mai come di questi tempi diventa un’ancora cui appendere speranze e avere certezze.
E vogliamo dargli una mano a rendere più bello il mondo, senza caricarlo delle nostre sconfitte in umanità.
Luca 1,76: <<76 E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell`Altissimoperché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade.>>
Quando ti capitano fatti gravi o importanti nella vita resti per un po’ di tempo incapace di comprendere, di parlare, di reagire.
Ti assale dolore, stupore, sorpresa, meraviglia … e … vai a cercare dentro di te una ragione, ti fai mille pensieri, costruisci congetture, ma … non è che te ne raccapezzi facilmente.
Poi finalmente ti scoppia dentro la chiave, la sintesi, la percezione del tutto, la bellezza o la chiarezza della tua situazione.
Ecco … il vecchio prete del tempio, Zaccaria, aveva pensato a lungo quello che gli era capitato nel tempio, quel giorno che si sentì dire che nella sua vecchiaia sarebbe diventato padre.
Ora, dopo nove mesi di silenzio forzato ,esplode in un canto che guida ancora oggi l’inizio delle nostre giornate.
O Dio sii benedetto, sii pieno del mio atto di lode; grazie che mi hai fatto vincere tutti i miei insensati dubbi e ora mi fai vedere e toccare con mano che tu non ci lasci soli, che tu il tuo popolo lo segui con cura e non lo lasci nella solitudine delle sue disperazioni e nelle sue paure.
Ci hai sempre fatto percepire che non ci avresti abbandonato, ma ora la tua salvezza è palpabile.
I tuoi giuramenti non erano calmanti e placebo, le tue promesse non erano lacci per controllarci; io sono un poveraccio, ma ho capito quanto tu sei grande, quanto sei fedele, come da sempre mi hai amato e ora dimostri il tuo amore con una visita.
Questo bambino che io non aspettavo, questo figlio che mi ha messo in cuore dubbi atroci sulla tua potenza, è tuo profeta.
Io, suo padre, non sto alla sua altezza, non ho il suo santo timore di te, non sono così pieno di santità e giustizia, di servizio.
Sono contento che lo hai chiamato per stare davanti a tuo figlio, a preparargli la strada.
E’ l’aurora del sole che sei tu, è l’alba di un nuovo giorno, illuminato definitivamente dalla tua bontà, dalla tua misericordia.
Tu sei il sole che lo illuminerà per sempre, tu strapperai dagli inferi i morti senza speranza, tu ci permetterai finalmente di percorrere sentieri di pace.
Le ombre della nostra vita, le ombre di morte che ci opprimono, non resistono a questa irruenza del tuo figlio nella nostra quotidianità.
Signore sii benedetto, ora è scoppiata dentro di me la certezza che tu non ci abbandoni mai.
Luca 1,63-64: <<63 Egli chiese una tavoletta, e scrisse: “Giovanni è il suo nome”. Tutti furono meravigliati. 64 In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.>>
Quando vivi degli avvenimenti intensi sembra che il tempo si fermi: l’attesa si fa spasmodica, conti i giorni … le ore … i minuti … poi ti guardi un attimo indietro e vedi che il tempo è passato, che gli avvenimenti procedono con una certa inesorabilità.
La vita che è iniziata si radica, continua, ha i suoi ritmi che paiono lenti, ma che procedono … però … inesorabili.
E così avvenne anche per Elisabetta: la sorpresa, la vergogna di vedersi incinta alla sua età, la consolazione di avere Maria a farle compagnia, il grande evento che in Lei si sta compiendo …
Tutto continua e nessuno più ferma la nuova storia, e viene il giorno in cui questo Giovanni nasce: le meraviglie, le incredulità, la sorpresa che pure ciascuno viveva nella sua interiorità prendono fuoco, perché ora Giovanni è lì, il suo pianto è vero, il suo corpo se lo coccola sua madre, se lo mangiano con gli occhi tutti!
Zaccaria è muto, è un padre ancora senza parole, gli ripassa nella mente tutta la sequenza del Tempio, della promessa, tutte le attenzioni di questi nove mesi.
Elisabetta si fa aiutare … Maria dopo tre mesi ritorna a casa sua.
Ora la storia di Dio continua in Lei, anch’essa ha bisogno di rientrare nella sua intimità a custodire il futuro dell’umanità.
Il bambino di Elisabetta è nato e arriva anche il giorno della Legge, il giorno della circoncisione: Questo figlio fa parte di un popolo, non nasce in un deserto di relazioni e di storia, è dentro un nobile casato sia per parte di Zaccaria che di Elisabetta.
Di nomi da ereditare ne ha tanti e tutti nobili, tutti capaci di rievocare gesta, ruoli elevati, funzioni eminenti: A cominciare dai capostipiti, Abia per Zaccaria e Aronne per Elisabetta.
Ma il bambino è destinato a far scoppiare il futuro, non a clonare il passato.
“Chiedevano con cenni a suo padre”… i muti ora sono tutti, come si fa di solito con chi non parla, con chi deve esprimersi a cenni.
Pensano forse che Zaccaria sia sordo e lo seppelliscono nell’isolamento, lo privano di qualsiasi normalità …
… e Zaccaria esprime ancora per l’ultima volta la sua tensione di non essere capace di dire e scrive: Giovanni sarà il suo nome.
Lui deve annunciare la novità assoluta, definitiva per l’umanità: non sarà cultore del tempio, non si metterà in fila come tutti a ripetere un passato anche glorioso, non farà come suo padre i turni settimanali dell’offerta dell’incenso, intuirà invece e indicherà con forza la venuta del Salvatore, brucerà di ardore per l’attesa del compimento.
Zaccaria torna a parlare, e la gente, noi, a riflettere; a domandarci: ma Dio che vuole da noi? Che vuole da noi Lui, che non ci abbandona mai?
Matteo 1, 18-24: <<Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.>>
Anche Dio voleva un figlio, voleva che la bella e drammatica vita umana potesse essere vissuta nella grandezza della Trinità, amava tanto l’uomo che non si poteva più accontentare di mandare angeli o di incaricare profeti per dir loro il suo amore appassionato.
Ma Dio non accampa diritti, il suo desiderio di avere un Figlio passa nelle trame delicate dell’amore.
All’inizio è l’amore trinitario. “Chi manderò io e chi andrà per noi”? E’ la domanda che apre nell’amore assoluto di Dio una risposta di generosità infinita: “Eccomi manda me”, dice il figlio, disponendosi a diventare uomo, desiderando mostrare all’uomo la bontà immensa del Padre, la sua delicatezza infinita per l’umanità, la sua attesa di un compimento della creazione, bloccata dal peccato.
Nella risposta del Figlio comincia a risuonare quell’abbà, papà, che caratterizzerà la vita di Gesù.
Ma l’amore di Dio ha ancora un altro delicato percorso da fare: Avrebbe a disposizione tutto il creato per realizzare i suoi piani, ma vuol avere bisogno di una madre e si mette nelle mani di una ragazza ebrea.
Pensata da sempre, pura da sempre, ombra di peccato non ha, non sta invischiata nella fila del contagio del male.
Dio l’ha nella sua mente da sempre, ma l’ha pensata libera: ha la bellezza di un diamante, ma è viva; ha lo splendore di un capolavoro, ma non è una statua, è una persona.
E Dio di fronte alla libertà della persona umana ha un imperativo assoluto: non la tocca, non la toglie, non la riduce, ma la esalta sempre.
Questo grande rispetto della libertà dell’uomo gli costerà la passione e la morte di Gesù, gli costa ogni giorno il cumulo di sofferenze degli uomini, gli odi, le guerre, i terrorismi, le ritorsioni, il male nella sua oscurità.
Ebbene Dio manda un angelo a Maria: “và e chiedile la libertà massima di diventare Madre di Gesù”.
E lei dice: eccomi, sì, con tutta la mia vita.
E a Giuseppe, lo sposo di Maria, chiede l’impossibile, ma glielo chiede: “Giuseppe, non temere, è da sempre che sto pensando alla tua onestà, alla tua giustizia, alla tua grinta, al dolcissimo amore che ti lega a Maria. Mi hai affascinato e mi ha affascinato la tua delicatissima relazione con Maria. In questo vostro amore meraviglioso, noi, la Trinità, vogliamo deporre Gesù, il Figlio di Dio. Quel bambino è la Parola, che era fin dal principio, è il nostro essere persona umana.”
Ogni amore umano tra uomo e donna chiama in causa l’amore di Dio, ne è una degna, ma velata immagine.
E’ Dio che si dà a vedere nell’intensità di amore tra i due.
Per Giuseppe e Maria in questo amore non c’è solo l’immagine, ma compare proprio Lui, la sorgente dell’amore, il suo senso, la completezza, la pienezza … compare proprio Gesù.
Quel bambino di gesso che depositeremo nel presepio è solo il simbolo di questa storia infinita di amore, questo intreccio di volontà e di attese, di dialoghi e di accoglienza.
… e la nostra vita umana, tutta la nostra biotecnologia, ha continuamente da misurarsi sull’amore, se vuol continuare ad essere vita.
Luca 1,46-48: <<Allora Maria Disse: “L’anima mia magnifica il Signore 47 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, 48 perché ha guardato l’umiltà della sua serva.D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.>>
C’è una notizia che sempre mette in moto la vita: la comunicazione che fa una donna di essere in attesa di un bambino.
Talvolta è angoscia, perché non lo si vuole; spesso è dramma perché non si è preparati; talora è disperazione perché si è stati abbandonati; molte volte è gioia perché si compie una attesa, si realizza un sogno d’amore, si completa una vita di famiglia, si avvera la gioia del dono.
Trepidazione, smarrimento, sorpresa, stupore: E’ il grande mistero della vita, cui spesso siamo abituati come se fosse un caso o una routine.
Invece la vita è sempre una grande novità, è sempre la visita di Dio, è la sua presenza nel mistero e nel tessuto delle nostre relazioni.
Nascono purtroppo non poche volte desideri di morte, si mettono in moto tragiche opzioni senza ritorno, ma spesso la vita trionfa, l’umanità si rinnova e continua la sua strada di accoglienza, dono, solidarietà, condivisione.
Due donne ci aiutano a ripensare alla bellezza della vita, alla sua capacità di sconvolgere in meglio la storia: sono Elisabetta e Maria.
Maria ha avuto la notizia della vita che si sta costruendo in Elisabetta dall’angelo: anche Elisabetta tua parente…è già al sesto mese.
E’ una notizia che la conferma nella grandezza di Dio, sa di una nuova nascita e gioisce: Si mette immediatamente in moto, va in fretta, verso la montagna, lascia la sua casa, non mossa da ansia o incertezza, ma da gioia e premura.
Per quelle strade di montagna non si sposta solo una ragazza nella sua voglia di vivere, di correre, di essere là dove c’è bisogno di lei, ma si sposta lo stesso Gesù : Maria è già in attesa del figlio di Dio e questo figlio partecipa già dei progetti di sollecitudine e amore della madre.
E’ come l’antica arca che gli ebrei portavano sempre con sé, un’arca che conteneva i segni della presenza di Dio.
Oggi questa arca è una vita, un corpo, una persona, una creatura: la creatura senza macchia, senza peccato, nello splendore della creazione che Dio desiderava per tutti gli uomini piena di grazia e abitata da Dio.
Sarà Elisabetta a percepirne la presenza attraverso quel balzo che nel seno Giovanni esprimerà.
Sono due mamme che si incontrano, ma sono due storie che si intrecciano, sono l’incontro tra la promessa, l’attesa, la supplica e il compimento, il dono, la salvezza.
Benedetta tu fra le donne. Lo ripetiamo ancora oggi questo canto di gioia ogni volta che recitiamo l’Ave Maria.
Diciamo sempre che Maria è benedetta perché dandoci Gesù ci ha dimostrato che Dio non ci abbandona mai.
Luca 1,28-29: <<28 Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. 29 A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.>>
Ci sono alcuni fatti che, tutte le volte che te li immagini, li pensi, li cerchi di rivivere … ti danno una serenità e una pace interiore assoluta.
Uno di questi è l’Annunciazione: Un fatto che segna indelebilmente la storia, una storia d’amore che decide le sorti dell’umanità, fa esplodere l’amore di Dio nel mondo, condanna alla sparizione d’un colpo tutto il male che vi si è annidato.
Maria, una ragazza, semplice, pulita, bella, appassionata, decisa, si incontra con Dio; Da una parte una creatura fragile e indifesa, di fronte il Creatore onnipotente e grande: si cancellano le distanze e inizia un nuovo mondo, il mondo e la vita di Gesù.
Tanti pittori, scultori, artisti, hanno tentato di “fermare” questo momento, di segnarlo della nostra partecipazione, di inscriverlo nei nostri panorami, nelle nostre case, nei palazzi; in vortici di luce, in delicatissime sfumature di colori, in intensi scambi di cenni e di sguardi.
Vuoi essere la madre di Gesù? Vuoi nella tua vita scrivere la potenza del creatore? Vuoi dare a Dio la carne con cui dimostrerà a tutti la sua tenerezza, il volto con cui potrà farsi vedere a tutti pieno di amore? Vuoi offrire al Creatore tutta la storia dell’umanità che ti ha preceduto, far passare in Lui l’anelito pur fragile alla bontà perché lui lo esalti e lo trasformi in lode e pienezza di vita?
E Maria mette in evidenza tutta la sua consapevolezza di creatura: Vuole dire subito di sì, ma lo vuol fare con il massimo di coscienza e disponibilità possibile.
<<E io chi sono? Potranno i miei fragili pensieri sostenere l’ampiezza di questo orizzonte, potrà la mia carica d’amore per i miei simili reggere all’intensità dell’amore di Dio? Perché tu Signore non mi vuoi soffocata, ma libera; non cancelli la mia natura di creatura, ma la vuoi aprire alle tue grandezze. Io ci sto, sono nelle tue mani come una serva, la Tua Parola è sempre la mia vita come lo è stata per il mondo che hai creato, per i profeti che ci hanno preceduto, come lo sarà per Colui che vorrai far nascere da me.>>
E Maria iniziava quel giorno a sognare il Figlio Gesù, ne vedeva già in filigrana il volto martoriato, si preparava a condividere l’avventura del Dio che non abbandona mai l’uomo.
Luca 1, 5-7: «5 Al tempo di Erode, re della Giudea, c`era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. 6 Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. 7 Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni. »
Il nostro mondo è sempre tentato di cedere al cosiddetto “destino”, cioè a una visione del vivere che ritiene essere la fatalità che decide il corso della storia; Il caso poi è legato all’impossibilità di vedere qualche bella novità che cambia il corso degli eventi.
Abbiamo una visione piccola della storia, e in questa si insinua sempre un abbassamento dell’orizzonte alle nostre piccole vedute, segnati dalle esperienze negative, impossibilitati a colpi d’ala che pure abbiamo talvolta sognato e che alla fine sono diventati un miraggio.
Era una vita così quella di Zaccaria, quel vecchio prete del tempio, ormai carico di anni, che faceva dell’abitudine quotidiana del servizio del tempio l’unico suo orizzonte, l’unica sua sicurezza.
<<Almeno questa settimana andrò a Gerusalemme e lì farò quel che la mia vita mi ha sempre permesso di fare. Darò lode all’Altissimo, gli brucerò l’incenso delle mie preghiere e quelle del mio popolo, ma sono stanco di aspettare, non c’è niente di nuovo né per me, né per il mio popolo. Non mi aspetto ormai che la morte su questa mia famiglia rimasta senza futuro, senza vita, senza il dono di un figlio.>>
Ma proprio in questo estremo sconforto Dio interviene e squarcia l’orizzonte.
Zaccaria, non solo avrai un figlio, nella tua vecchiaia, non solo la tua vita avrà un futuro, ma questo figlio sarà l’inizio di un futuro nuovo per tutto il popolo, per tutta l’umanità.
Smettila di lamentarti, buttati nella grandezza del tuo Dio, non credere di essere abbandonato perché Dio è proprio da te che comincia a ridare speranza a tutti.
Ma Zaccaria non è allenato alla speranza, è allenato al lamento, si tiene in piedi per il ruolo e non riesce a trapassare il presente, a togliere il velo dell’abitudine … e si attarda a tentare di capacitarsi di quel che gli sta avvenendo, discute, tergiversa, gli viene un sorriso amaro sulla bocca: Che pensieri stanno abitando la mia vecchiaia? Sono degne del Santo dei Santi queste fantasie? Mia moglie, che mi è sempre stata accanto, con cui tante volte abbiamo sospirato e che poi alla fine si è data pace, è ormai vecchia e rinsecchita come me, può offrirsi a Dio per questa nuova storia?
Non può che restare muto, gli viene meno la parola,
alla gente che lo aspetta fuori comunica a gesti, perché non ha saputo
ascoltare e accettare l’unica Parola che salva, che ci dà la certezza che Dio
non ci abbandona mai.